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5° incontro: don Alfredo Jacopozzi

Gesù è vicino a chi ha il cuore ferito. Il Buon Samaritano (Lc 10,25-37)

 

 


Trascrizione dalla registrazione senza la revisione dell'autore. Un grazie sentito ad Elisabetta per la collaborazione.

 

Prof. Don Alfredo Jacopozzi. Docente di Storia della Religioni

Sabato 16 Maggio 2015

 

Gesù è vicino a chi ha il cuore ferito. Il Buon Samaritano (Lc 10,25-37)

Il brano di stasera è un brano che ha una particolarità: una parte (l’incontro tra Gesù e il dottore della legge ritorna anche in Matteo e Marco) mentre la parabola è solo di Luca. In Matteo e Marco questo brano è collocato negli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme, mentre Luca lo sposta all’inizio del percorso verso Gerusalemme, all’inizio del viaggio. Nel vangelo di Luca ad un certo punto si dice che “Gesù si decise” quasi con determinazione “ad andare a Gerusalemme” ed il cammino da questo momento è quasi una dimensione iniziatica, un cammino verso l’esodo, verso il punto di arrivo, e questo cammino diviene presa di consapevolezza di cosa vuol dire seguire Gesù su questo cammino. Ecco che all’inizio di questo cammino viene posto questo brano con la domanda “che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?” oppure “qual è il primo dei comandamenti?” (come viene detto negli altri testi).

Quindi siamo di fronte ad un testo che fa iniziare un percorso. Credo che sia importante sottolineare un aspetto ben preciso: con questo brano e con la parabola che segue, Gesù cambia prospettiva, fa cambiare radicalmente il concetto di prossimo. Il prossimo nel mondo ebraico era colui che era oggetto dell’amore. Ebbene per Gesù “prossimo” non è più colui che è oggetto dell’amore ma è colui che ama. Quindi il prossimo non è colui al quale dirigo il mio amore, ma sono io, non è colui che è amato, ma colui che ama. E lo vedremo nella domanda finale che Gesù pone al dottore della legge “chi pensi che sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?

E’ importante sottolineare subito, questo aspetto, perché ci pone immediatamente nel dinamismo dell’amore, perché il fatto che Luca metta questo brano all’inizio del percorso che Gesù fa per andare verso Gerusalemme, quindi è un percorso di sequela di Gesù verso Gerusalemme, attraverso la comprensione di cosa significa “amare” e non secondo la prospettiva del dottore della legge.

La domanda del dottore della legge “chi è il mio prossimo?” è una domanda molto religiosa perché cerca di determinare fino a che punto posso amare, e fino a che punto posso non amare più? Invece Gesù non si pone da questa prospettiva, dalla prospettiva del dottore della legge che con quella domanda vuole limitare dell’amore, ma Gesù vuol far vedere attraverso il Samaritano che c’è una dimensione d’amore molto più grande, l’amore è un punto di partenza, non c’è una discriminante per capire quanto devo amare quanto devo perdonare… non è un discorso di quantità, è un discorso di radicale cambiamento del cuore. Questo è l’aspetto su cui cercherò di insistere.

v. 25: Il “dottore della legge” è un esperto, è interprete accreditato delle Scritture e cosa fa? “si alzò per metterlo alla prova” in realtà il verbo è “per tentare Gesù”, è lo stesso verbo che Luca usa per parlare delle tentazioni nel deserto. Quindi il grande difensore della legge, l’esperto della legge, per l’evangelista Luca, non è altro che uno strumento diabolico. Qui mettiamo subito in chiaro che non è un anonimo dottore della legge, ma che tenta Gesù, e lo tenta in maniera diabolica. E’ la mentalità di chi gioca in maniera ambiziosa con il fatto di essere esperto della legge, e gli chiede “Maestro” e anche qui notate la falsità un po’ tipica dell’atteggiamento religioso di chi non è che vuole davvero apprendere, ma vuole tentare Gesù e non ha nessuna intenzione di ascoltare e imparare da Gesù ma vuole intrappolare Gesù, ed è ben diverso! E chiede cosa deve fare per avere la vita eterna. Tema fondamentale:  è cosa significa essere salvati, dare senso pieno alla propria vita, alla propria dimensione di fede, questa è la vita eterna. La stessa domanda, formulata secondo la mentalità ebraica, in Matteo dice “qual è il primo comandamento?” mentre Luca pone di più l’accento sul “fare” e questo spiega anche il motivo della parabola seguente  che insiste sul fare.

Gesù gli risponde in maniera abbastanza ironica, un po’ distaccata perché se questo dottore della legge è uno che ha speso tutta la vita per interpretare la Scrittura, Gesù sa che lui conosce la legge, e gli risponde con una contro domanda alla maniera tipicamente rabbinica: “che cosa sta scritto nella legge?” e soprattutto “che cosa vi leggi?” o detto in maniera un po’ più trita: “che cosa ci capisci nella legge?” Perché non basta leggere la scrittura, ma bisogna capirla. Ed è chiaro che alla luce di tutto lo sviluppo di questa parabola, è chiaro che se non si mette al fondo della lettura della scrittura, lo Spirito, cioè l’amore di D-o per l’uomo, è chiaro che la bibbia può essere letta e riletta e predicata, ma di fatto “la Lettera uccide”! perché ciò che conta è come noi siamo capaci di interpretare la legge alla luce dello Spirito, cioè alla luce del Bene per l’uomo, di ciò che è bene per l’uomo.

Quindi il dottore della legge alla contro domanda di Gesù risponde in maniera classica, con quello che è il credo di Israele tratto da Dt,6 lo Shemà Israel: “amerai il Signore  D-o tuo con tutto il tuo cuore, la tua anima” cioè con tutto te stesso, con tutta la tua vita, a cui Luca aggiunge “con tutta la tua mente”. E poi l’altro testo di Lv 19,18 “e il prossimo tuo come te stesso”. Quindi all’amore di D-o con tutti se stessi, radicale, assoluto viene unito l’amore al prossimo, verso l’altro, come te stesso.

E Gesù dice “hai risposto bene, fai questo e vivrai”. E qui si fermerebbe il testo presente anche negli altri sinottici e inizia la seconda parte.

v. 29: “Ma quello volendosi giustificare…” perché si vuole giustificare? Il brano ci fa intravedere che ai tempi di Gesù c’era un grande dibattito tra le scuole rabbiniche: erano temi appassionanti questi su chi fosse il prossimo. E nel mondo ebraico si andava dalla concezione più ristretta per cui il prossimo erano solo quelli di casa, quelli che appartengono al clan familiare o al massimo alla tribù, a quella un pochino più ampia che includeva anche lo straniero che abitava dentro i confini di Israele. Il resto non era prossimo, erano nemici, perché questa era la mentalità. Quindi vuole giustificarsi perché era per la visione più restrittiva e di Gesù aveva sentito parlare come di un maestro strano che prendeva la Legge un po’ a modo suo.

Ed ecco che parte la parabola di Gesù in cui “un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico”.

Il titolo di questo ciclo di incontri è “Gesù terapeuta” e abbiamo già detto quanto le immagini nel vangelo hanno questa funzione terapeutica nel senso che sono immagini profonde. E’ chiaro che qui non siamo davanti solo ad una indicazione geografica. C’è qualcosa di più profondo in questa immagine: Gerusalemme: 800 mt sopra il livello del mare, Gerico: 250 mt sotto il livello del mare, quindi 25 kilometri di strada abbastanza desertica (è un percorso esistenziale, potremmo dire in chiave simbolica: dalle stelle alle stalle) che da Gerusalemme, luogo del tempio, del fulgore, della socialità (e capite bene che su questa immagine ci possiamo vedere tutta la vita nel suo massimo splendore) porta a Gerico, 250 mt sotto il livello del mare. E’ quindi una discesa, una caduta, un percorso difficile che dice discesa rapida, veloce.

In questo percorso difficile “un uomo” e Luca quando si esprime in questa dimensione così generica significa “l’umanità”. E da Gerusalemme a Gerico, ce n’è tanta umanità che cade vittima della Vita, delle situazioni, che cade sotto i colpi della vita! Qui è chiaro che viene descritta una situazione abbastanza normale: in una strada così disagiata, cadere in mano ai briganti, era un fatto quotidiano, non era qualcosa di insolito. E questi briganti lasciano quest’uomo moribondo, in una condizione di morte certa, “mezzo morto” dice il testo, a meno che “per caso” cioè fortunatamente, quasi, qualcuno lo soccorra (notate l’abilità parabolica di Gesù di creare una suspence nel racconto per aumentare l’attenzione degli ascoltatori)

v. 31: “Per caso un sacerdote scendeva”. Sappiamo che i sacerdoti del tempio andavano a Gerusalemme per una settimana dove facevano il loro servizio al tempio e il fatto che scendesse da Gerusalemme significa probabilmente che era stato al tempio, quindi era carico della sua relazione con D-o, è stato a contatto con D-o per una settimana, quindi è pienamente puro! Non poteva capitare di meglio che una persona religiosamente pura potesse impattarsi in una situazione di sofferenza e di morte. In realtà quando lo vide “passò oltre”. Perché? Perché la legislazione del sacerdozio secondo Levitico e Numeri non prevedeva che un sacerdote potesse accudire una persona in situazione di sofferenza, perché non poteva perdere la sua purità sacrale, legale. Addirittura il Talmud dice che un sacerdote, se morivano i suoi genitori, non poteva neanche toccarli! Nel sacerdozio questa sacralità è una sacralità fuori dalla vita, fuori da tutto! E’ un rapporto con D-o totalmente staccato dalla vita. Questa è l’immagine che Gesù ci presenta di questa figura sacerdotale ed è uno dei protagonisti di questa parabola. Quindi gli era impedito per la sua purità, di toccare qualsiasi persona sofferente tanto più se sembra un cadavere.

Capite bene che Gesù attraverso questa immagine sta mettendo in questione una faccenda molto seria. Ed è una faccenda seria perché infondo la domanda che Gesù indirettamente pone è questa: la legge va osservata sempre e comunque? anche quando c’è una situazione di bisogno, di sofferenza? E quando c’è un conflitto tra la legge divina e il bene dell’uomo, che cosa si fa? Il sacerdote non ha dubbi: prima viene la legge divina, poi viene il bene dell’uomo. Stessa cosa vale anche per il levita. Il levita era un addetto al culto, quindi sempre dentro la liturgia del tempio. Anche lui “passa oltre”. Quindi capite la forza di queste immagini. Una sacralità che diventa insensibilità, un non rendersi conto: passa oltre. Questo “passare oltre” è drammatico, significa proprio non vedere, avere il paraocchi. Questa purità che finisce per non guardare, per non vedere realmente la situazione di sofferenza.

Il testo riprende dicendo “invece un samaritano…vide e ne ebbe compassione”.

Il samaritano nella mentalità ebraica di Gesù era quanto di più lontano c’era da D-o, i samaritani erano eretici, erano di serie “B”, socialmente emarginati per motivi di “ortodossia”. Quindi Gesù prende come protagonista di questa parabola, un samaritano: ciò che di più lontano si può pensare dalla mentalità legalistica, pura del mondo di Gesù.

E questo samaritano “ha compassione” che è un verbo (“splanchnizomai”) che nel vangelo di Luca è un verbo “denso”, da sottolineare perché ritorna 3 volte in tutto il vangelo: quando Gesù ha compassione della vedova di Naim (Lc 7,13) (quindi è un verbo che Luca applica a Gesù stesso), quando il padre del figliol prodigo “vede il figlio e ne ebbe compassione” (Lc 15,20) e lo abbraccia (quindi applicato al Padre). Capite allora che questo è un verbo “divino” cioè un verbo che narra e racconta l’atteggiamento di D-o stesso. E qui è applicato ad un samaritano: a quanto di più lontano c’è da D-o! Quindi l’unico personaggio al quale viene attribuita un’azione divina è proprio quello che viene considerato il più lontano da D-o, un rivale di D-o.

Capite che già qui Gesù sta rispondendo alla domanda: chi è il vero credente? Ricordatevi che Luca pone questo brano all’inizio del cammino verso Gerusalemme, chi è il vero credente, chi è quello che si pone alla sequela di Gesù? E’ quello che obbedisce a D-o osservando tutte le leggi? O colui che assomiglia al Padre praticando un amore assolutamente simile al suo? La risposta è chiara, è lampante.

Ed allora ecco che, “lo vide ne ebbe compassione, gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all'albergatore, dicendo: "Abbi cura di lui.. al mio ritorno ti rifonderò” sono 10 verbi, è un decalogo. Sono 10 verbi che dicono questa delicatezza, questa cura, questa cura quasi esagerata.. Questo samaritano si fa servo, si fa davvero (come mettono in evidenza i padri della chiesa) quel servo in cui Gesù si identifica: “Gesù, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l'essere come Dio, ma svuotò se stesso assumendo una condizione di servo” (Fil 2,6).

Quindi in questa figura del samaritano, Gesù, infondo, parla di sé, parla del suo amore, della sua compassione, delle sue viscere di misericordia, di questa apertura totale delle sue viscere che dice questo amore denso, totale (come dice il verbo “splanchnizomai”) che si fa servo dell’uomo.

Ed ecco allora la domanda finale di Gesù, al dottore della legge: “chi di questi tre, ti sembra SIA STATO PROSSIMO CON LUI?”

Il dottore della legge aveva chiesto: “chi è il mio prossimo?”. Gesù gli chiede “chi sia stato prossimo” di quello che è incappato nei briganti. Quindi non “fino a dove deve arrivare il tuo amore”, ma DA DOVE DEVE PARTIRE! Questo è il punto dirimente della parabola. Quindi il prossimo non è colui che viene amato, ma colui che ama.

v. 37: E qui notate come la parabola è puntuale: il dottore della legge non ha neanche il coraggio di articolare questa parola “compassione”, è troppo scandalosa per lui, e dice “chi ha avuto misericordia di lui” che non è lo stesso verbo di prima (compassione). Come a dire che il dottore della legge non ce la fa ad usare il verbo che dice la compassione di D-o;  un uomo, per di più un samaritano non può essere sullo stesso livello di D-o, di queste viscere di misericordia che si spalancano! Allora Luca gli mette sulla bocca “chi ha avuto misericordia” che è un verbo più umano.

E Gesù gli dice “va anche tu e fa così”.

Dopo aver ripercorso la parabola vorrei porre l’attenzione su un aspetto un po’ più interpretativo.

Questa domanda del dottore della legge “chi è il mio prossimo” che motiva la parabola è la domanda dell’uomo religioso, dell’uomo religioso che vuole soltanto assolvere al precetto della legge: gli interessa chi deve amare e chi può escludere dal suo amore, non pensa al bene dell’uomo, non pensa alla sofferenza umana! Questo è drammatico.

Gesù invece identificandosi nella figura del samaritano parlando di sé è colui che va incontro all’umanità, è colui che allevia la sofferenza di chi trova sul suo cammino, è colui che tranquillamente infrange la legge del sabato, infrange le norme di purezza e quindi è chiaro che risponde con un racconto in cui viene sintetizzato tutto questo, certo in modo provocatorio, perché vuole opporsi a quel legalismo religioso che ignora realmente l’amore verso D-o con tutto se stessi e l’amore per il prossimo come se stessi.

Quindi questa mancanza di compassione e questo andare oltre, io credo che siano il segno di una religione che non è assolutamente centrata su D-o ma è centrata sul culto, su un culto sacro che allontana dalla vita, che preserva dal contatto con la sofferenza umana, che non è compassionevole, e secondo Gesù, non sono gli uomini della legge, religiosi che ci possono far capire e indicare come entrare in contatto con la vita, ma sono le persone che hanno cuore, che hanno compassione.

L’amore non è un fatto di ortodossia, ma è una ortoprassi (in termini umani significa che è per chi ha cuore). Pensate alla solidarietà che si crea tra le persone sofferenti, che dalla vita non si aspettano più niente e che sono in quella sofferenza che le fa sentire una vicina all’altra. Questa mi sembra una immagine pertinente per indicare quella solidarietà con cui D-o si fa prossimo all’uomo e al sofferente, proprio perché è un D-o che ha viscere di compassione, di vicinanza alla realtà umana, non è un D-o che si scherma dentro logiche religiose, per cui sta a distinguere che tipo di persona è quella, che tipo di vita ha condotto. Quando entriamo dentro questa prospettiva perdiamo il contatto con la Vita, mettiamo muri di cemento nei confronti della vita e quindi non è una chiesa samaritana, non c’è un’umanità e tanto meno una chiesa che nei confronti della sofferenza umana non si fa minimamente vicina Quella chiesa che fa le conferenze sulle periferie esistenziali e poi non si interroga su chi è nei confronti di questa persona “chi è stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?” cioè cosa fai tu, come chiesa, in rapporto a questa persona? Hai questa vicinanza con la sofferenza umana? Quando io, prete, incontro una persona che è stata devastata nella dimensione matrimoniale da una situazione difficile, quanto sono vicino a questa sofferenza o quanto mi richiudo dentro il diritto canonico che subito mette un muro tra me e quella sofferenza?

Questa mi sembra sia la domanda a cui Gesù ci richiama, tutti. Quanto davvero sono PARTECIPE, carico di questa forza vitale, di questa compassione? Potremmo anche usare “misericordia” ma dentro questa prospettiva evangelica, il termine misericordia viene usato in un altro senso, e invece parliamo più di “compassione” che è il “sentimento meno sentimentale” perché la compassione impatta davvero l’umano, l’umano in tutta la sua drammaticità, in tutto il suo cumulo di sofferenza profonda.

Quindi il fatto che Gesù stesso ci metta davanti come protagonista di questa parabola uno che non viene dal tempio ma che viene dalle periferie dell’emarginazione sociale, culturale, religiosa (un samaritano è questo), (ed ecco la terapia di questa parabola!) ci fa entrare in quella profondità per cui ci fa capire DA DOVE PROVIENE IL TUO AMORE? viene davvero da sofferenze vissute radicate nella tua umanità? Oppure no e sono tutte sofferenze seppellite, coperte, tenute blindate in modo tale che poi non ti fanno penetrare in quella profondità in modo da essere poi vicino alla sofferenza di quella persona, perché se non vai a toccare quelle sofferenze profonde, come dice Henry Nouwen (importante scrittore del ‘900) “se non sei un guaritore profondamente ferito” e quella ferita non la alimenti con la compassione, invece di suturarla. Se invece la nascondi invece di renderla profonda, vitale, non puoi essere in quella compassione che ti fa prossimo, che ti fa tutt’uno con l’umanità sofferente, non ti fa mettere in atto quel decalogo fatto di quella gestualità, di quell’attenzione, di quella cura, che in maniera quasi iperbolica viene espressa in questa parabola, fino a coinvolgere perfino altri (l’albergatore). Qui ci vedo davvero l’immagine di una chiesa che vive questo dinamismo e che si fa intensamente partecipe della sofferenza umana, ma è una sofferenza che tocco. E la tocco, prima di tutto, dentro di me, perché dentro di me la tocca e la tiene permanentemente viva Gesù, il Signore della mia vita, che riconosco davvero come il samaritano che viene a curare, e come dice il prefazio di un comune “Gesù  ancor oggi come buon samaritano viene accanto ad ogni uomo piagato nel corpo e nello spirito e versa sulle sue ferite l’olio della consolazione e il vino della speranza”. Soltanto una chiesa che vive di questo dinamismo, che vive questa profondità dell’umanità in tutta la sua verità, può essere vicina, altrimenti diventa una chiesa che ha sempre quell’atteggiamento sempre un gradino sopra, nei confronti dell’umano e quindi ti vengo incontro/ti aiuto ma non sono al tuo pari e faccio la carità in un atteggiamento di superiorità, non di vicinanza.

Queste sono immagini che si radicano profondamente nel nostro vissuto, ma il nostro vissuto significa questa capacità di percepire la sofferenza, come qualcosa che è davvero capace di compassione. Cristo è morto, Cristo è sulla croce. E questo Cristo sulla croce è qualcosa che mette la mia vita in questo permanente confronto con l’umano in tutta la sua densità.

Questo io credo che sia l’atteggiamento che ci viene presentato. C’era un teologo della liberazione, Jon So-brino che già parecchi anni fa parlava “del principio di compassione nella chiesa”. E compassione non è una virtù tra tante, ma è l’atteggiamento radicale, è quello più profondo che deve ispirare l’agire dell’essere umano davanti alla sofferenza.

Io credo che la parabola del buon samaritano da questo punto di vista non è una tra le altre parabole ma è quella che secondo Gesù è quella che meglio esprime cosa significa essere davvero umani. Il samaritano è una persona che incontra, vede, apre la sua vita con queste viscere di compassione perché è innanzitutto colui che (ecco perché Gesù si identifica con il samaritano) ha sperimentato la sofferenza fino in fondo, l’emarginazione. Ecco perché Gesù prende una figura fuori dall’orizzonte religioso, perché l’orizzonte religioso alla luce di questa parabola, sembra quasi incapace di sentire l’umano. Quindi la compassione è davvero il principio fondamentale dell’azione di D-o e che configura la Vita e il destino di Gesù e quindi configura la vita e il destino di chi decide di andare verso Gerusalemme. Ecco perché la parabola viene posta iun questo punto. La sequela di Gesù significa entrare in questa mentalità di compassione. Ecco che la chiesa può diventare davvero una chiesa samaritana che reagisce alla sofferenza con la compassione e non con il giudizio, né con l’atteggiamento della “carità fatta perché è bene fare la carità”. Io me lo chiedo spesso se è bene fare la carità. Se fare la carità significa avere quell’atteggiamento di “oh poverini, quanto soffrono” ma io ne sto fuori da questa situazione, è bene fare la carità in questo modo? Se questa è la nostra mentalità non siamo lontani dalla mentalità del dottore della legge: quanto devo fare la carità? E’ una modalità che non è quella che ci presenta Gesù nella parabola.

Io credo che sia importante rileggere permanentemente questa parabola non secondo i criteri e i canoni di “una ortodossia” che qui non si trova casa: il samaritano non è ortodosso. Il samaritano è uno che esprime innanzitutto il cuore, ma un cuore che non è il cuore della “benevolenza paternalistica” ma è carico di un vissuto… è Gesù, è Gesù! E’ il D-o che si è fatto servo di tutti, schiavo fino alla condizione di morte.  Direi che alla luce di questo non credo che ci sia modo di leggere questa parabola se non come una presa di consapevolezza di una compassione, di un agire compassionevole di D-o, nella vita, proprio come capacità permanente da cui sempre partire. O tocchiamo questo livello profondo o altrimenti si ripresenta nella nostra vita il levita e il sacerdote, cioè l’uomo religioso che scherma il suo rapporto con la vita e con la sua sofferenza e una volta che si ripresenta questo non vediamo più intorno a noi l’umano in tutta la sua densità.

 

 

(1.02) DOMANDE (ne sono riportate solo alcune; per le altrre vedere il video) :

COMMENTARIO: alla scuola di Luca

Simone: La volta scorsa abbiamo visto già nella adultera un superamento della legge nell’amore. E nello stesso tempo l’amore è esigente, l’amore si prende tutto perché è tutto???.

- Elisabetta: Come non bruciarsi vivendo aperti a queste viscere di misericordia che ti spingono ad agire, ricordandosi che nel brano successivo Gesù riprende Marta, donna d’azione, e la riporta a garantirsi una relazione intima, sorgiva con Gesù e la Parola

Alfredo: Sulla dinamiche psicologiche nei confronti della sofferenza è chiaro che ciascuno ha i suoi livelli di “sopportazione”. Non c’è dubbio, quindi anche il burn-out, questa specie di corto circuito che scatta nella nostra vita di fronte a certe realtà, è un dato più che plausibile. Quindi non toccherei l’aspetto psicologico perché non è su questo che vorrei porre l’attenzione. Mi fa piacere che tu abbia sottolineato il fatto che dopo questo testo ci sia il testo di Marta e Maria. Mi viene in mente quello che Henry Nouwen che racconta di un suo incontro con madre teresa di calcutta su cui vomita addosso tutto il suo disagio psicologico, tutta la sua sofferenza e Madre Teresa gli dice: “stai ogni giorno un’ora davanti al santissimo sacramento”. Lui non si aspettava una cosa del genere e sentì che questa frase gli aveva come bucato il suo personaggio psicologico, come se lo avesse sgonfiato improvvisamente. E aggiunge che “mi rendo conto che lei aveva toccato l’essenziale, che era andata al cuore del problema, al fatto che se non c’è una dimensione spirituale (che non è qualcosa di staccato dal corporeo e dallo psicologico) di DECOMPRESSIONE, cioè se non c’è questo ascolto profondo e questo mettere tutta la nostra vita in questa sintonia di apertura del cuore (Maria), è chiaro che non c’è la possibilità di riprendersi! Se non c’è una dimensione interiore nella vita di fede, non c’è una dimensione di fede feconda, non c’è un percorso, ci si blocca! Ci si ripara dietro la dimensione propriamente religiosa…

Io credo che questo sia il punto su cui ritornare: ritornare ad una percezione di sé in rapporto a quella dimensione di sofferenza. Certo, alcune sofferenze sono anche “memoria”, non sono sofferenze che ci bruciano la pelle, ma proprio perché l’abbiamo fatta nostra e non l’abbiamo scansata, ma elaborata e interiorizzata profondamente diventa memoria viva che sento e che riconosco subito quando la vedo nella persona che ho davanti a me. E l’altro sente che non sto facendo un discorso religioso di convenienza ma sto partecipando e siamo in quella relazione vitale.

Quindi il percorso di una sofferenza lacerante, tutti noi l’abbiamo fatto, e quanto queste situazioni hanno trovato la possibilità di essere accudite, sanate, portate? E in questo io credo che sia importante che non siamo stati da soli a viverle.

 

 

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