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Meditazioni e Testi

In questa sezione inseriremo meditazioni e frasi per comprendere cos'è l'Eucarestia e cos'è l'Adorazione.
Se l'Adorazione è un'estensione della S. Messa, le sedi di adorazione sono un punto focale della vita di fede.

Riporto sotto alcune riflessioni di Benedetto XVI aul tema Eucaristia - Adorazione - Comunione

Se il titolo ha un collegamento, chi vuole approfondire può cliccare sopra e quindi accedere all'omelia o al discorso nella versione integrale.

 


Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005

Nel periodo della riforma liturgica spesso la Messa considerata come Cena eucaristica e l'adorazione del Ss.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro: il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa. Nell'esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una tale contrapposizione. Già Agostino aveva detto: “...nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit;...peccemus non adorando - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; ...peccheremmo se non la adorassimo” (cfr Enarr. in Ps 98,9 CCL XXXIX 1385). Di fatto, non è che nell'Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui. Perciò, lo sviluppo dell'adorazione eucaristica, come ha preso forma nel corso del Medioevo, era la più coerente conseguenza dello stesso mistero eucaristico: soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri.


Benedetto XVI, Incontro con il clero della diocesi di Roma, 2 marzo 2006

Vorrei soltanto dire: grazie a Dio, perché dopo il Concilio, dopo un periodo in cui mancava un po' il senso dell'adorazione eucaristica, è rinata la gioia di questa adorazione dappertutto nella Chiesa, come abbiamo visto e sentito nel Sinodo sull'Eucaristia. Certo, con la Costituzione conciliare sulla Liturgia, è stata riscoperta soprattutto tutta la ricchezza dell'Eucaristia celebrata, dove si realizza il testamento del Signore: Egli si dà a noi e noi rispondiamo dandoci a Lui. Ma, adesso, abbiamo riscoperto che questo centro che ci ha donato il Signore nel poter celebrare il suo sacrificio e così entrare in comunione sacramentale, quasi corporale, con Lui perde la sua profondità e anche la sua ricchezza umana se manca l'Adorazione, come atto conseguente alla comunione ricevuta: l'adorazione è un entrare con la profondità del nostro cuore in comunione con il Signore che si fa presente corporalmente nell'Eucaristia. Nell'Ostensorio si dà sempre nelle nostre mani e ci invita ad unirci alla sua Presenza, al suo Corpo risorto.

 


Benedetto XVI, Omelia Santa Messa conclusione XXIV Congresso Eucaristico Nazionale, Bari, 29 maggio 2005

 La Parola di Dio e la ragione vanno insieme. Seguire la Parola di Dio, andare con Cristo significa per l’uomo realizzare se stesso; smarrirla equivale a smarrire se stesso. Il Signore non ci lascia soli in questo cammino. Egli è con noi; anzi, Egli desidera condividere la nostra sorte fino ad immedesimarsi con noi. Nel colloquio che ci ha riferito poc'anzi il Vangelo Egli dice: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui" (Gv 6,56). Come non gioire di una tale promessa? Abbiamo sentito però che, a quel primo annuncio, la gente, invece di gioire, cominciò a discutere e a protestare: "Come può costui darci la sua carne da mangiare?" (Gv 6,52). Per la verità, quell'atteggiamento s'è ripetuto tante altre volte nel corso della storia. Si direbbe che, in fondo, la gente non voglia avere Dio così vicino, così alla mano, così partecipe delle sue vicende. La gente lo vuole grande e, in definitiva anche noi spesso lo vogliamo un po’ lontano da noi. Si sollevano allora questioni che vogliono dimostrare, alla fine, che una simile vicinanza sarebbe impossibile. Ma restano in tutta la loro chiarezza le parole che Cristo pronunciò in quella circostanza: "In verità, in verità vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell'uomo e non bevete il suo sangue, non avrete in voi la vita" (Gv 6,53). In verità abbiamo bisogno di un Dio vicino. Di fronte al mormorio di protesta, Gesù avrebbe potuto ripiegare su parole rassicuranti: "Amici, avrebbe potuto dire, non preoccupatevi! Ho parlato di carne, ma si tratta soltanto di un simbolo. Ciò che intendo è solo una profonda comunione di sentimenti". Ma no, Gesù non ha fatto ricorso a simili addolcimenti. Ha mantenuto ferma la propria affermazione, tutto il suo realismo, anche di fronte alla defezione di molti suoi discepoli (cfr Gv 6,66). Anzi, Egli si è dimostrato disposto ad accettare persino la defezione degli stessi suoi apostoli, pur di non mutare in nulla la concretezza del suo discorso: "Forse anche voi volete andarvene?" (Gv 6,67), ha domandato. Grazie a Dio Pietro ha dato una risposta che anche noi, oggi, con piena consapevolezza facciamo nostra: "Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna" (Gv 6,68). Abbiamo bisogno di un Dio vicino, di un Dio che si dà nelle nostre mani e che ci ama.

Nell'Eucaristia Cristo è realmente presente tra noi. La sua non è una presenza statica. E' una presenza dinamica, che ci afferra per farci suoi, per assimilarci a sé. Cristo ci attira a sé, ci fa uscire da noi stessi per fare di noi tutti una cosa sola con Lui. In questo modo Egli ci inserisce anche nella comunità dei fratelli e la comunione con il Signore è sempre anche comunione con le sorelle e con i fratelli. E vediamo la bellezza di questa comunione che la Santa Eucaristia ci dona.

Qui tocchiamo un’ulteriore dimensione dell’Eucaristia, che vorrei ancora raccogliere prima di concludere. Il Cristo che incontriamo nel Sacramento è lo stesso qui a Bari come a Roma, qui in Europa come in America, in Africa, in Asia, in Oceania. E' l’unico e medesimo Cristo che è presente nel Pane eucaristico di ogni luogo della terra. Questo significa che noi possiamo incontrarlo solo insieme con tutti gli altri. Possiamo riceverlo solo nell’unità. Non è forse questo che ci ha detto l’apostolo Paolo nella lettura ascoltata poc’anzi? Scrivendo ai Corinzi egli afferma: "Poiché c'è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane" (1 Cor 10,17). La conseguenza è chiara: non possiamo comunicare con il Signore, se non comunichiamo tra noi. Se vogliamo presentarci a Lui, dobbiamo anche muoverci per andare gli uni incontro agli altri. Per questo bisogna imparare la grande lezione del perdono: non lasciar lavorare nell’animo il tarlo del risentimento, ma aprire il cuore alla magnanimità dell’ascolto dell’altro, aprire il cuore alla comprensione nei suoi confronti, all’eventuale accettazione delle sue scuse, alla generosa offerta delle proprie.

L’Eucaristia -ripetiamolo -è sacramento dell’unità. Ma purtroppo i cristiani sono divisi, proprio nel sacramento dell’unità. Tanto più dobbiamo, sostenuti dall’Eucaristia, sentirci stimolati a tendere con tutte le forze a quella piena unità che Cristo ha ardentemente auspicato nel Cenacolo. Proprio qui, a Bari, felice Bari, città che custodisce le ossa di San Nicola, terra di incontro e di dialogo con i fratelli cristiani dell’Oriente, vorrei ribadire la mia volontà di assumere come impegno fondamentale quello di lavorare con tutte le energie alla ricostituzione della piena e visibile unità di tutti i seguaci di Cristo. Sono cosciente che per questo non bastano le manifestazioni di buoni sentimenti. Occorrono gesti concreti che entrino negli animi e smuovano le coscienze, sollecitando ciascuno a quella conversione interiore che è il presupposto di ogni progresso sulla via dell’ecumenismo (cfr Messaggio alla Chiesa universale, Cappella Sistina, 20 aprile 2005: l’Osservatore Romano 21 aprile 2005, pag. 8). Chiedo a voi tutti di prendere con decisione la strada di quell’ecumenismo spirituale, che nella preghiera apre le porte allo Spirito Santo, che solo può creare l’unità.

Cari amici venuti a Bari da varie parti d’Italia per celebrare questo Congresso eucaristico, noi dobbiamo riscoprire la gioia della domenica cristiana. Dobbiamo riscoprire con fierezza il privilegio di partecipare all’Eucaristia, che è il sacramento del mondo rinnovato. La risurrezione di Cristo avvenne il primo giorno della settimana, che nella Scrittura è il giorno della creazione del mondo. Proprio per questo la domenica era considerata dalla primitiva comunità cristiana come il giorno in cui ha avuto inizio il mondo nuovo, quello in cui, con la vittoria di Cristo sulla morte, è iniziata la nuova creazione. Raccogliendosi intorno alla mensa eucaristica, la comunità veniva modellandosi come nuovo popolo di Dio. Sant’Ignazio di Antiochia qualificava i cristiani come "coloro che sono giunti alla nuova speranza", e li presentava come persone "viventi secondo la domenica" ("iuxta dominicam viventes"). In tale prospettiva il Vescovo antiocheno si domandava: "Come potremmo vivere senza di Lui, che anche i profeti hanno atteso?" (Ep. ad Magnesios, 9,1-2).

"Come potremmo vivere senza di Lui?". Sentiamo echeggiare in queste parole di Sant’Ignazio l’affermazione dei martiri di Abitene: "Sine dominico non possumus". Proprio di qui sgorga la nostra preghiera: che anche noi cristiani di oggi ritroviamo la consapevolezza della decisiva importanza della Celebrazione domenicale e sappiamo trarre dalla partecipazione all’Eucaristia lo slancio necessario per un nuovo impegno nell’annuncio al mondo di Cristo "nostra pace" (Ef 2,14). Amen!


Benedetto XVI, Omelia Santa Messa Corpus Domini, Basilica di San Giovanni in Laterano, 15 giugno 2006

Allora, guardando più da vicino, questo piccolo pezzo di Ostia bianca, questo pane dei poveri, ci appare come una sintesi della creazione. Cielo e terra come anche attività e spirito dell'uomo concorrono. La sinergia delle forze che rende possibile sul nostro povero pianeta il mistero della vita e l'esistenza dell'uomo, ci viene incontro in tutta la sua meravigliosa grandezza. Così cominciamo a capire perché il Signore sceglie questo pezzo di pane come suo segno. La creazione con tutti i suoi doni aspira al di là di se stessa ad un qualcosa di ancora più grande. Al di là della sintesi delle proprie forze, al di là della sintesi anche di natura e di spirito che in qualche modo avvertiamo nel pezzo di pane, la creazione è protesa verso la divinizzazione, verso le sante nozze, verso l'unificazione con il Creatore stesso.

Ma ancora non abbiamo spiegato fino in fondo il messaggio di questo segno del pane. Il suo mistero più profondo, il Signore l'ha accennato nella Domenica delle Palme, quando gli fu presentata la richiesta di alcuni Greci di poterlo incontrare. Nella sua risposta a questa domanda si trova la frase: "In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto" (Gv 12, 24). Nel pane fatto di chicchi macinati si cela il mistero della Passione. La farina, il grano macinato, presuppone il morire e risuscitare del chicco. Nell'essere macinato e cotto esso porta poi in sé ancora una volta lo stesso mistero della Passione. Solo attraverso il morire arriva il risorgere, arriva il frutto e la nuova vita. Le culture del Mediterraneo, nei secoli prima di Cristo, hanno intuito profondamente questo mistero. Sulla base dell'esperienza di questo morire e risorgere hanno concepito miti di divinità che, morendo e risuscitando, davano vita nuova. Il ciclo della natura sembrava loro come una promessa divina in mezzo alle tenebre della sofferenza e della morte imposte a noi. In questi miti l'anima degli uomini, in certo qual modo, si protendeva verso quel Dio che si è fatto uomo, si è umiliato fino alla morte in croce e ha aperto così per tutti noi la porta della vita. Nel pane e nel suo divenire, gli uomini hanno scoperto come una attesa della natura, come una promessa della natura che questo avrebbe dovuto esistere: il Dio che muore e in questo modo ci conduce alla vita. Ciò che nei miti era attesa e che nello stesso chicco di grano è nascosto come segno della speranza della creazione -questo è accaduto realmente in Cristo. Attraverso il suo soffrire e morire liberamente, Egli è diventato pane per tutti noi, e con ciò speranza viva ed attendibile: Egli ci accompagna in tutte le nostre sofferenze fino alla morte. Le vie che Egli percorre con noi e attraverso le quali ci conduce alla vita sono cammini di speranza.

Quando noi adorando guardiamo l'Ostia consacrata, il segno della creazione ci parla. Allora incontriamo la grandezza del suo dono; ma incontriamo anche la Passione, la Croce di Gesù e la sua risurrezione. Mediante questo guardare in adorazione, Egli ci attira verso di sé, dentro il suo mistero, per mezzo del quale vuole trasformarci come ha trasformato l'Ostia.

La Chiesa primitiva ha trovato nel pane ancora un altro simbolismo. La Dottrina dei dodici Apostoli, un libro composto intorno all'anno 100, riporta nelle sue preghiere l'affermazione: "Come questo pane spezzato era sparso sui colli e raccolto divenne una cosa sola, così la tua Chiesa dai confini della terra venga radunata nel tuo Regno" (IX, 4). Il pane fatto da molti chicchi racchiude anche un evento di unione: il diventare pane dei chicchi macinati è un processo di unificazione. Noi stessi, dai molti che siamo, dobbiamo diventare un solo pane, un solo corpo, ci dice san Paolo (1 Cor 10,17). Così il segno del pane diventa insieme speranza e compito.

In modo molto simile ci parla anche il segno del vino. Mentre però il pane rimanda alla quotidianità, alla semplicità e al pellegrinaggio, il vino esprime la squisitezza della creazione: la festa di gioia che Dio vuole offrirci alla fine dei tempi e che già ora sempre di nuovo anticipa a modo di accenno mediante questo segno. Ma anche il vino parla della Passione: la vite deve essere potata ripetutamente per essere così purificata; l'uva deve maturare sotto il sole e la pioggia e deve essere pigiata: solo attraverso tale passione matura un vino pregiato.

Nella festa del Corpus Domini guardiamo soprattutto il segno del pane. Esso ci ricorda anche il pellegrinaggio di Israele durante i quarant'anni nel deserto. L'Ostia è la nostra manna con la quale il Signore ci nutre -è veramente il pane dal cielo, mediante il quale Egli dona se stesso. Nella processione noi seguiamo questo segno e così seguiamo Lui stesso. E lo preghiamo: Guidaci sulle strade di questa nostra storia! Mostra alla Chiesa e ai suoi Pastori sempre di nuovo il giusto cammino! Guarda l'umanità che soffre, che vaga insicura tra tanti interrogativi; guarda la fame fisica e psichica che la tormenta! Dà agli uomini pane per il corpo e per l'anima! Dà loro lavoro! Dà loro luce! Dà loro te stesso! Purifica e santifica tutti noi! Facci comprendere che solo mediante la partecipazione alla tua Passione, mediante il "sì" alla croce, alla rinuncia, alle purificazioni che tu ci imponi, la nostra vita può maturare e raggiungere il suo vero compimento. Radunaci da tutti i confini della terra. Unisci la tua Chiesa, unisci l'umanità lacerata! Donaci la tua salvezza! Amen.

 


Un modo essenziale dello stare col Signore è l’Adorazione eucaristica. Altötting, grazie al Vescovo Schraml, ha ottenuto una nuova “camera del tesoro”. Laddove una volta si custodivano i tesori del passato, oggetti preziosi della storia e della pietà, si trova adesso il luogo per il vero tesoro della Chiesa: la presenza permanente del Signore nel suo Sacramento. Il Signore, in una delle sue parabole, ci racconta del tesoro nascosto nel campo. Chi l’ha trovato, così dice a noi, vende tutti i suoi averi per poter comprare il campo, perché il tesoro nascosto supera ogni altro valore. Il tesoro nascosto, il bene sopra ogni altro bene, è il Regno di Dio -è Gesù stesso, il Regno in persona. Nell’Ostia sacra Egli è presente, il vero tesoro, sempre per noi raggiungibile. Solo nell’adorazione di questa sua presenza impariamo a riceverlo in modo giusto -impariamo il comunicarci, impariamo dall'interno la celebrazione dell’Eucaristia. Vorrei citare in questo contesto una bella parola di Edith Stein, la santa Compatrona d’Europa, che scrive in una sua lettera: “Il Signore è presente nel tabernacolo con divinità e umanità. Egli è lì, non per sé stesso, ma per noi: perché è la sua gioia stare con gli uomini. E perché sa che noi, così come siamo, abbiamo bisogno della sua vicinanza personale. La conseguenza per quanti pensano e sentono normalmente è quella di sentirsi attratti e di soffermarsi lì ogniqualvolta e finché è loro concesso” (Gesammelte Werke VII, 136f). Amiamo lo stare col Signore!  Là possiamo parlare con Lui di tutto. Possiamo esporgli le nostre domande, le nostre preoccupazioni, le nostre angosce. Le nostre gioie. La nostra gratitudine, le nostre delusioni, le nostre richieste e le nostre speranze. Là possiamo anche ripetergli sempre di nuovo: “Signore, manda operai nella tua messe! Aiutami ad essere un buon lavoratore nella tua vigna!”

 


Dopo il tempo forte dell’anno liturgico, che incentrandosi sulla Pasqua si distende nell’arco di tre mesi -prima i quaranta giorni della Quaresima, poi i cinquanta giorni del Tempo pasquale-, la liturgia ci fa celebrare tre feste che hanno invece un carattere “sintetico”: la Santissima Trinità, quindi il Corpus Domini, e infine il Sacro Cuore di Gesù. Qual è il significato proprio della solennità odierna, del Corpo e Sangue di Cristo? Ce lo dice la celebrazione stessa che stiamo compiendo, nello svolgimento dei suoi gesti fondamentali: prima di tutto ci siamo radunati intorno all’altare del Signore, per stare insieme alla sua presenza; in secondo luogo ci sarà la processione, cioè il camminare con il Signore; e infine l’inginocchiarsi davanti al Signore, l’adorazione, che inizia già nella Messa e accompagna tutta la processione, ma culmina nel momento finale della benedizione eucaristica, quando tutti ci prostreremo davanti a Colui che si è chinato fino a noi e ha dato la vita per noi. Soffermiamoci brevemente su questi tre atteggiamenti, perché siano veramente espressione della nostra fede e della nostra vita.

Il primo atto, dunque, è quello di radunarsi alla presenza del Signore. E’ ciò che anticamente si chiamava “statio”. Immaginiamo per un momento che in tutta Roma non vi sia che quest’unico altare, e che tutti i cristiani della città siano invitati a radunarsi qui, per celebrare il Salvatore morto e risorto. Questo ci dà l’idea di che cosa sia stata alle origini, a Roma e in tante altre città dove giungeva il messaggio evangelico, la celebrazione eucaristica: in ogni Chiesa particolare vi era un solo Vescovo e intorno a Lui, intorno all’Eucaristia da lui celebrata, si costituiva la Comunità, unica perché uno era il Calice benedetto e uno il Pane spezzato, come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Paolo nella seconda Lettura (cfr 1 Cor 10,16-17). Viene alla mente quell’altra celebre espressione paolina: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). “Tutti voi siete uno”! In queste parole si sente la verità e la forza della rivoluzione cristiana, la rivoluzione più profonda della storia umana, che si sperimenta proprio intorno all’Eucaristia: qui si radunano alla presenza del Signore persone diverse per età, sesso, condizione sociale, idee politiche. L’Eucaristia non può mai essere un fatto privato, riservato a persone che si sono scelte per affinità o amicizia. L’Eucaristia è un culto pubblico, che non ha nulla di esoterico, di esclusivo. Anche qui, stasera, non abbiamo scelto noi con chi incontrarci, siamo venuti e ci troviamo gli uni accanto agli altri, accomunati dalla fede e chiamati a diventare un unico corpo condividendo l’unico Pane che è Cristo. Siamo uniti al di là delle nostre differenze di nazionalità, di professione, di ceto sociale, di idee politiche: ci apriamo gli uni agli altri per diventare una cosa sola a partire da Lui. Questa fin dagli inizi è stata una caratteristica del cristianesimo realizzata visibilmente intorno all’Eucaristia, e occorre sempre vigilare perché le ricorrenti tentazioni di particolarismo, seppure in buona fede, non vadano di fatto in senso opposto. Pertanto, il Corpus Domini ci ricorda anzitutto questo: che essere cristiani vuol dire radunarsi da ogni parte per stare alla presenza dell’unico Signore e diventare in Lui una sola cosa.

Il secondo aspetto costitutivo è il camminare con il Signore. E’ la realtà manifestata dalla processione, che vivremo insieme dopo la Santa Messa, quasi come un suo naturale prolungamento, muovendoci dietro Colui che è la Via, il Cammino. Con il dono di Se stesso nell’Eucaristia, il Signore Gesù ci libera dalle nostre “paralisi”, ci fa rialzare e ci fa “pro-cedere”, ci fa fare cioè un passo avanti, e poi un altro passo, e così ci mette in cammino, con la forza di questo Pane della vita. Come accadde al profeta Elia, che si era rifugiato nel deserto per paura dei suoi nemici, e aveva deciso di lasciarsi morire (cfr 1 Re 19,1-4). Ma Dio lo svegliò dal sonno e gli fece trovare lì accanto una focaccia appena cotta: “Alzati e mangia -gli disse -perché troppo lungo per te è il cammino” (1 Re 19, 5.7). La processione del Corpus Domini ci insegna che l’Eucaristia ci vuole liberare da ogni abbattimento e sconforto, ci vuole far rialzare, perché possiamo riprendere il cammino con la forza che Dio ci dà mediante Gesù Cristo. E’ l’esperienza del popolo d’Israele nell’esodo dall’Egitto, la lunga peregrinazione attraverso il deserto, di cui ci ha parlato la prima Lettura. Un’esperienza che per Israele è costitutiva, ma risulta esemplare per tutta l’umanità. Infatti l’espressione “l’uomo non vive soltanto di pane, ma ... di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3) è un’affermazione universale, che si riferisce ad ogni uomo in quanto uomo. Ognuno può trovare la propria strada, se incontra Colui che è Parola e Pane di vita e si lascia guidare dalla sua amichevole presenza. Senza il Dio-con-noi, il Dio vicino, come possiamo sostenere il pellegrinaggio dell’esistenza, sia singolarmente che in quanto società e famiglia dei popoli? L’Eucaristia è il Sacramento del Dio che non ci lascia soli nel cammino, ma si pone al nostro fianco e ci indica la direzione. In effetti, non basta andare avanti, bisogna vedere verso dove si va! Non basta il “progresso”, se non ci sono dei criteri di riferimento. Anzi, se si corre fuori strada, si rischia di finire in un precipizio, o comunque di allontanarsi più rapidamente dalla meta. Dio ci ha creati liberi, ma non ci ha lasciati soli: si è fatto Lui stesso “via” ed è venuto a camminare insieme con noi, perché la nostra libertà abbia anche il criterio per discernere la strada giusta e percorrerla.

E a questo punto non si può non pensare all’inizio del “decalogo”, i dieci comandamenti, dove sta scritto: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me” (Es 20,2-3). Troviamo qui il senso del terzo elemento costitutivo del Corpus Domini: inginocchiarsi in adorazione di fronte al Signore. Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (cfr Gv 3,16). Ci prostriamo dinanzi a un Dio che per primo si è chinato verso l’uomo, come Buon Samaritano, per soccorrerlo e ridargli vita, e si è inginocchiato davanti a noi per lavare i nostri piedi sporchi. Adorare il Corpo di Cristo vuol dire credere che lì, in quel pezzo di pane, c’è realmente Cristo, che dà vero senso alla vita, all’immenso universo come alla più piccola creatura, all’intera storia umana come alla più breve esistenza. L’adorazione è preghiera che prolunga la celebrazione e la comunione eucaristica e in cui l’anima continua a nutrirsi: si nutre di amore, di verità, di pace; si nutre di speranza, perché Colui al quale ci prostriamo non ci giudica, non ci schiaccia, ma ci libera e ci trasforma. Ecco perché radunarci, camminare, adorare ci riempie di gioia. Facendo nostro l’atteggiamento adorante di Maria, che in questo mese di maggio ricordiamo particolarmente, preghiamo per noi e per tutti; preghiamo per ogni persona che vive in questa città, perché possa conoscere Te, o Padre, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo. E così avere la vita in abbondanza. Amen.

 


Benedetto XVI, Omelia in diretta TV per la celebrazione conclusiva del 49º Congresso Eucaristico Internazionale in Québec, Sala dei Foconi del Palazzo Apostolico Vaticano, 22 giugno 2008

"Il mistero della fede":  è questo che proclamiamo in ogni messa. Desidero che tutti si impegnino a studiare questo grande mistero, specialmente rivisitando ed esplorando, individualmente e in gruppo, il testo del Concilio sulla Liturgia, la Sacrosanctum Concilium, al fine di testimoniare con coraggio il mistero. In questo modo, ciascuna persona giungerà a capire meglio il significato di ogni aspetto dell'Eucaristia, comprendendone la profondità e vivendola con maggiore intensità. Ogni frase, ogni gesto ha un proprio significato e nasconde un mistero. Auspico sinceramente che questo Congresso serva da appello a tutti i fedeli affinché si impegnino allo stesso modo per un rinnovamento della catechesi eucaristica, di modo che acquisiscano essi stessi un'autentica consapevolezza eucaristica e a loro volta insegnino ai bambini e ai giovani a riconoscere il mistero centrale della fede e costruiscano la loro vita intorno a esso. Esorto specialmente i sacerdoti a rendere il dovuto onore al rito eucaristico e chiedo a tutti i fedeli di rispettare il ruolo di ogni individuo, sia sacerdote sia laico, nell'azione eucaristica. La liturgia non appartiene a noi:  è il tesoro della Chiesa.

La ricezione dell'Eucaristia, l'adorazione del Santissimo Sacramento - con ciò intendiamo approfondire la nostra comunione, prepararci a essa e prolungarla - significa consentire a noi stessi di entrare in comunione con Cristo, e attraverso di lui con tutta la Trinità, per diventare ciò che riceviamo e per vivere in comunione con la Chiesa. È ricevendo il Corpo di Cristo che riceviamo la forza "dell'unità con Dio e con gli altri" (cfr san Cirillo d'Alessandria, In Ioannis Evangelium, 11, 11; cfr. sant'Agostino, Sermo 577). Non dobbiamo mai dimenticare che la Chiesa è costruita intorno a Cristo e che, come hanno detto sant'Agostino, san Tommaso d'Aquino e sant'Alberto Magno, seguendo san Paolo (cfr 1 Cor, 10, 17), l'Eucaristia è il sacramento dell'unità della Chiesa perché tutti noi formiamo un solo corpo di cui il Signore è il capo. Dobbiamo ritornare continuamente indietro all'ultima cena del giovedì santo, dove abbiamo ricevuto un pegno del mistero della nostra redenzione sulla croce. L'ultima cena è il luogo della Chiesa nascente, il grembo che contiene la Chiesa di ogni tempo. Nell'Eucaristia il sacrificio di Cristo viene costantemente rinnovato, la Pentecoste viene costantemente rinnovata. Possiate tutti voi diventare sempre più consapevoli dell'importanza dell'Eucaristia domenicale, perché la domenica, il primo giorno della settimana, è il giorno in cui onoriamo Cristo, il giorno in cui riceviamo la forza per vivere quotidianamente il dono di Dio!

Desidero anche invitare i pastori e i fedeli a un'attenzione rinnovata per la loro preparazione alla ricezione dell'Eucaristia. Nonostante la nostra debolezza e il nostro peccato, Cristo vuole dimorare in noi. Per questo, dobbiamo fare tutto il possibile per riceverlo in un cuore puro, ritrovando costantemente, mediante il sacramento del perdono, quella purezza che il peccato ha macchiato, "armonizzando la nostra anima con la nostra voce", secondo l'invito del Concilio (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 11). Di fatto, il peccato, soprattutto quello grave, si oppone all'azione della grazia eucaristica in noi. D'altro canto, coloro che non possono comunicarsi per la loro situazione troveranno comunque in una comunione di desiderio e nella partecipazione all'Eucaristia una forza e un'efficacia salvatrice.

L'Eucaristia non è solo un pasto fra amici. È mistero di alleanza. "Le preghiere e i riti del sacrificio eucaristico fanno continuamente rivivere davanti agli occhi della nostra anima, nel corso del ciclo liturgico, tutta la storia della salvezza, e ci fanno penetrare sempre più il suo significato" (Santa Thérèse-Bénédicte de la Croix, [Edith Stein], Wege zur inneren Stille, Aschaffenburg, 1987, p. 67). Siamo chiamati a entrare in questo mistero di alleanza conformando ogni giorno di più la nostra vita al dono ricevuto nell'Eucaristia. Questa ha un carattere sacro, come ricorda il Concilio Vaticano ii:  "ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo sacerdote e del suo corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza, e nessun'altra azione della Chiesa ne uguaglia l'efficacia allo stesso titolo e allo stesso grado" (Sacrosanctum Concilium, n. 7). In un certo senso, essa è "liturgia celeste", anticipazione del banchetto nel Regno eterno, annunciando la morte e la resurrezione di Cristo, "finché Egli venga" (1 Cor, 11, 26).

 


Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla Plenaria della CCDDS, Sala del Concistoro, 13 marzo 2009

Il Concilio Vaticano Secondo ha messo in luce il ruolo singolare che il mistero eucaristico ha nella vita dei fedeli (Sacrosanctum Concilium, nn. 48-54, 56). Come Papa Paolo VI ha più volte ribadito: «l’Eucaristia è un altissimo mistero, anzi propriamente, come dice la Sacra Liturgia, il mistero di fede» (Mysterium fidei, n. 15). L’Eucaristia, infatti, è alle origini stesse della Chiesa (cfr Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 21) ed è la sorgente della grazia, costituendo un’incomparabile occasione sia per la santificazione dell’umanità in Cristo che per la glorificazione di Dio. In questo senso, da una parte, tutte le attività della Chiesa sono ordinate al mistero dell’Eucaristia (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 10; Lumen gentium, n. 11; Presbyterorum ordinis, n. 5; Sacramentum caritatis, n. 17), e, dall’altra, è in virtù dell’Eucaristia che «la Chiesa continuamente vive e cresce» (Lumen gentium, n. 26). Nostro compito è percepire il preziosissimo tesoro di questo ineffabile mistero di fede «tanto nella stessa celebrazione della Messa quanto nel culto delle sacre specie, che sono conservate dopo la Messa per estendere la grazia del Sacrificio» (Istruz. Eucharisticum mysterium, n. 3, g.). La dottrina della transustanziazione del pane e del vino e della presenza reale sono verità di fede evidenti già nella Sacra Scrittura stessa e confermate poi dai Padri della Chiesa. Papa Paolo VI, al riguardo, ricordava che «la Chiesa Cattolica non solo ha sempre insegnato, ma anche vissuto la fede nella presenza del corpo e del sangue di Cristo nella Eucaristia, adorando sempre con culto latreutico, che compete solo a Dio, un così grande Sacramento» (Mysterium fidei, n. 56; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1378).

È opportuno ricordare, al riguardo, le diverse accezioni che il vocabolo «adorazione» ha nella lingua greca e in quella latina. La parola greca proskýnesis indica il gesto di sottomissione, il riconoscimento di Dio come nostra vera misura, la cui norma accettiamo di seguire. La parola latina adoratio, invece, denota il contatto fisico, il bacio, l’abbraccio, che è implicito nell’idea di amore. L’aspetto della sottomissione prevede un rapporto d’unione, perché colui al quale ci sottomettiamo è Amore. Infatti, nell’Eucaristia l’adorazione deve diventare unione: unione col Signore vivente e poi col suo Corpo mistico. Come ho detto ai giovani sulla Spianata di Marienfeld, a Colonia, durante la Santa Messa in occasione della XX Giornata mondiale della Gioventù, il 21 agosto 2005: «Dio non è più soltanto di fronte a noi, come il Totalmente Altro. È dentro di noi, e noi siamo in Lui. La sua dinamica ci penetra e da noi vuole propagarsi agli altri e estendersi a tutto il mondo, perché il suo amore diventi realmente la misura dominante del mondo» (Insegnamenti, vol. I, 2005, pp. 457 s.). In questa prospettiva ricordavo ai giovani che nell’Eucaristia si vive la «fondamentale trasformazione della violenza in amore, della morte in vita; essa trascina poi con sé le altre trasformazioni. Pane e vino diventano il suo Corpo e Sangue. A questo punto però la trasformazione non deve fermarsi, anzi è qui che deve cominciare appieno. Il Corpo e il Sangue di Cristo sono dati a noi affinché noi stessi veniamo trasformati a nostra volta» (ibid., p. 457).

Il mio Predecessore, Papa Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica «Spiritus et Sponsa», in occasione del 40° anniversario della Costituzione Sacrosanctum Concilium sulla Sacra Liturgia, esortava ad intraprendere i passi necessari per approfondire l’esperienza del rinnovamento. Ciò è importante anche rispetto al tema dell’adorazione eucaristica. Tale approfondimento sarà possibile soltanto attraverso una maggiore conoscenza del mistero in piena fedeltà alla sacra Tradizione ed incrementando la vita liturgica all’interno delle nostre comunità (cfr Spiritus et Sponsa, nn. 6-7). A questo riguardo, apprezzo in particolare che la Plenaria si sia soffermata anche sul discorso della formazione di tutto il Popolo di Dio nella fede, con una speciale attenzione ai seminaristi, per favorirne la crescita in uno spirito di autentica adorazione eucaristica. Spiega, infatti, S. Tommaso: «Che in questo sacramento sia presente il vero Corpo e il vero Sangue di Cristo non si può apprendere coi sensi, ma con la sola fede, la quale si appoggia all’autorità di Dio» (Summa theologiae, III, 75, 1; cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1381).

 


Benedetto XVI, Discorso all’apertura del Convegno Ecclesiale della diocesi di Roma, 26 maggio 2009

(...) Se è la Parola a convocare la Comunità, è l'Eucaristia a farla essere un corpo: «Poiché c'è un solo pane -scrive san Paolo -, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell'unico pane» (1 Cor 10,17). La Chiesa dunque non è il risultato di una somma di individui, ma un'unità fra coloro che sono nutriti dall'unica Parola di Dio e dall'unico Pane di vita. La comunione e l'unità della Chiesa, che nascono dall'Eucaristia, sono una realtà di cui dobbiamo avere sempre maggiore consapevolezza, anche nel nostro ricevere la santa comunione, sempre più essere consapevoli che entriamo in unità con Cristo e così diventiamo noi, tra di noi, una cosa sola. Dobbiamo sempre nuovamente imparare a custodire e difendere questa unità da rivalità, da contese e gelosie che possono nascere nelle e tra le comunità ecclesiali.

In particolare, vorrei chiedere ai movimenti e alle comunità sorti dopo il Vaticano II, che anche all'interno della nostra Diocesi sono un dono prezioso di cui dobbiamo sempre ringraziare il Signore, vorrei chiedere a questi movimenti, che ripeto sono un dono, di curare sempre che i loro itinerari formativi conducano i membri a maturare un vero senso di appartenenza alla comunità parrocchiale. Centro della vita della parrocchia, come ho detto, è l'Eucaristia, e particolarmente la Celebrazione domenicale. Se l'unità della Chiesa nasce dall'incontro con il Signore, non è secondario allora che l'adorazione e la celebrazione dell'Eucaristia siano molto curate, dando modo a chi vi partecipa di sperimentare la bellezza del mistero di Cristo. Dato che la bellezza della liturgia «non è mero estetismo, ma modalità con cui la verità dell'amore di Dio in Cristo ci raggiunge, ci affascina e ci rapisce» (Sacramentum caritatis n. 35), è importante che la Celebrazione eucaristica manifesti, comunichi, attraverso i segni sacramentali, la vita divina e riveli agli uomini e alle donne di questa città il vero volto della Chiesa.

 


Benedetto XVI, Luce del mondo, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010, p. 218

Per quel che riguarda la sacralità dell’Eucaristia, Lei una volta ha affermato che non c’è alcuna libertà di azione. Essa sarebbe il fulcro e il cardine di ogni rinnovamento. Cambiamenti spirituali sarebbero possibili unicamente a partire dallo spirito dell’Eucaristia.

Se è vero –come noi crediamo- che nell’Eucaristia Cristo è realmente presente, allora questo è l’avvenimento centrale per eccellenza. Non l’avvenimento di un solo giorno, ma della storia del mondo nel suo complesso, forza decisiva dalla quale sola possono scaturire dei cambiamenti. È importante che nella Eucaristia parola e presenza reale del Signore nei segni stiano insieme. Che nella parola troviamo anche un insegnamento. Che nella nostra preghiera rispondiamo, e che in questo modo il precedere di Dio ed in nostro andare insieme con Lui ed il lasciarsi-cambiare si intreccino, perché avvenga quel cambiamento dell’uomo che è la più importante condizione per un cambiamento realmente positivo del mondo. Se vogliamo che nel modo qualcosa vada avanti, questo è possibile solo a partire dall’unità di misura di Dio, che viene a dimorare in noi, che entra in noi come realtà. Nell’Eucaristia gli uomini possono essere plasmati. Per questo le grandi figure che in tutta la storia hanno suscitato vere rivoluzioni di bene sono i santi che, toccati da Cristo, hanno portato nel mondo nuovi impulsi.

Da Papa, Lei ha iniziato ad amministrare la Comunione ai fedeli in bocca, quando essi si inginocchiano. Crede che sia questa la posizione più appropriata?

(...) Non sono contro la Comunione in mano per principio, io stesso l’ho amministrata così ed in quel modo l’ho anche ricevuto. Facendo sì che la Comunione si riceva in ginocchio e che la si amministri in bocca, ho voluto dare un segno di timore e mettere un punto esclamativo circa la Presenza reale. Non da ultimo perché proprio nelle celebrazioni di massa, come quelle nella Basilica di San Pietro o sulla Piazza, il pericolo dell’appiattimento è grande. Ho sentito di persone che si mettono la Comunione in borsa, portandosela via quasi fosse un souvenir qualsiasi. In un contesto simile, nel quale si pensa che è ovvio ricevere la Comunione –della serie: tutti vanno in avanti allora lo faccio anch’io- volevo dare un segnale forte, deve essere chiaro questo: “È qualcosa di particolare! Qui c’è Lui, è di fronte a Lui che cadiamo in ginocchio. Fate attenzione! Non si tratta di un rito sociale qualsiasi al quale si può partecipare o meno”.

 

 


Benedetto XVI, “Lectio divina” nell’incontro con i parroci della diocesi di Roma, 18 febbraio 2010

Continuando la lettura, segue una frase difficile da interpretare. L’Autore della Lettera agli Ebrei dice che Gesù ha pregato fortemente, con grida e lacrime, Dio che poteva salvarlo dalla morte, e, per il suo pieno abbandono, venne esaudito (cfr 5,7). Qui vorremmo dire: “No, non è vero, non è stato esaudito, è morto”. Gesù ha pregato di essere liberato dalla morte, ma non è stato liberato, è morto in modo molto crudele. Perciò il grande teologo liberale Harnack ha detto: “Qui manca un no”, deve essere scritto: “Non è stato esaudito” e Bultmann ha accettato questa interpretazione. Però questa è una soluzione che non è esegesi, ma è una violenza al testo. In nessuno dei manoscritti appare “non”, ma “è stato esaudito”; quindi dobbiamo imparare a capire che cosa significhi questo “essere esaudito”, nonostante la Croce.

Io vedo tre livelli per capire questa espressione. In un primo livello si può tradurre il testo greco così: “è stato redento dalla sua angoscia” e in questo senso, Gesù è esaudito. Sarebbe, quindi, un accenno a quanto ci racconta san Luca che “un angelo ha rafforzato Gesù” (cfr Lc 22,43), in modo che, dopo il momento dell’angoscia, potesse andare diritto e senza timore verso la sua ora, come ci descrivono i Vangeli, soprattutto quello di san Giovanni. Sarebbe l’esaudimento, nel senso che Dio gli dà la forza di portare tutto questo peso e così è esaudito. Ma a me sembra che sia una risposta non del tutto sufficiente. Esaudito in senso più profondo -Padre Vanhoye l’ha sottolineato -vuol dire: “è stato redento dalla morte”, ma non per il momento, per quel momento, ma per sempre, nella Risurrezione: la vera risposta di Dio alla preghiera di essere redento dalla morte è la Risurrezione e l’umanità viene redenta dalla morte proprio nella Risurrezione, che è la vera guarigione delle nostre sofferenze, del mistero terribile della morte.

Qui è già presente un terzo livello di comprensione: la Risurrezione di Gesù non è solo un avvenimento personale. Mi sembra che sia di aiuto tenere presente il breve testo nel quale san Giovanni, nel Capitolo 12 del suo Vangelo, presenta e racconta, in modo molto riassuntivo, il fatto del Monte degli Ulivi. Gesù dice: “La mia anima è turbata” (Gv 12, 27), e, in tutta l’angoscia del Monte degli Ulivi, che cosa dirò?: “O salvami da questa ora, o glorifica il tuo nome” (cfr Gv 12,27-28). E’ la stessa preghiera che troviamo nei Sinottici: “Se possibile salvami, ma sia fatta la tua volontà” (cfr Mt 26,42; Mc 14,36; Lc 22,42), che nel linguaggio giovanneo appare appunto: “O salvami, o glorifica”. E Dio risponde: “Ti ho glorificato e ti glorificherò in futuro” (cfr Gv 12,28). Questa è la risposta, l’esaudire divino: glorificherò la Croce; è la presenza della gloria divina, perché è l’atto supremo dell’amore. Nella Croce, Gesù è elevato su tutta la terra e attira la terra a sé; nella Croce appare adesso il “Kabod”, la vera gloria divina del Dio che ama fino alla Croce e così trasforma la morte e crea la Resurrezione.

La preghiera di Gesù è stata esaudita, nel senso che realmente la sua morte diventa vita, diventa il luogo da dove redime l’uomo, da dove attira l’uomo a sé. Se la risposta divina in Giovanni dice: “ti glorificherò”, significa che questa gloria trascende e attraversa tutta la storia sempre e di nuovo: dalla tua Croce, presente nell’Eucaristia, trasforma la morte in gloria. Questa è la grande promessa che si realizza nella Santa Eucaristia, che apre sempre di nuovo il cielo. Essere servitore dell’Eucaristia è, quindi, profondità del mistero sacerdotale.

 

Benedetto XVI, “Lectio divina” nell’incontro con i parroci della diocesi di Roma, 18 febbraio 2010

 (...) Ancora una breve parola, almeno su Melchisedek. E’ una figura misteriosa che entra in Genesi 14 nella storia sacra: dopo la vittoria di Abramo su alcuni Re, appare il Re di Salem, di Gerusalemme, Melchisedek, e porta pane e vino. Una storia non commentata e un po’ incomprensibile, che appare nuovamente solo nel salmo 110, come già detto, ma si capisce che poi l’Ebraismo, lo Gnosticismo e il Cristianesimo abbiano voluto riflettere profondamente su questa parola e abbiano creato le loro interpretazioni. La Lettera agli Ebrei non fa speculazione, ma riporta soltanto quanto dice la Scrittura e sono diversi elementi: è Re di giustizia, abita nella pace, è Re da dove è la pace, venera e adora il Dio Altissimo, il Creatore del cielo e della terra, e porta pane e vino (cfr Eb 7,1-3; Gen 14,18-20). Non viene commentato che qui appare il Sommo Sacerdote del Dio Altissimo, Re della pace, che adora con pane e vino il Dio Creatore del cielo e della terra. I Padri hanno sottolineato che è uno dei santi pagani dell’Antico Testamento e ciò mostra che anche dal paganesimo c’è una strada verso Cristo e i criteri sono: adorare il Dio Altissimo, il Creatore, coltivare giustizia e pace, e venerare Dio in modo puro. Così, con questi elementi fondamentali, anche il paganesimo è in cammino verso Cristo, rende, in un certo modo, presente la luce di Cristo.

Nel canone romano, dopo la Consacrazione, abbiamo la preghiera supra quae, che menziona alcune prefigurazioni di Cristo, del suo sacerdozio e del suo sacrificio: Abele, il primo martire, con il suo agnello; Abramo, che sacrifica nell’intenzione il figlio Isacco, sostituito dall’agnello dato da Dio; e Melchisedek, Sommo Sacerdote del Dio Altissimo, che porta pane e vino. Questo vuol dire che Cristo è la novità assoluta di Dio e, nello stesso tempo, è presente in tutta la storia, attraverso la storia, e la storia va incontro a Cristo. E non solo la storia del popolo eletto, che è la vera preparazione voluta da Dio, nella quale si rivela il mistero di Cristo, ma anche dal paganesimo si prepara il mistero di Cristo, vi sono vie verso Cristo, il quale porta tutto in sé.

Questo mi sembra importante nella celebrazione dell’Eucaristia: qui è raccolta tutta la preghiera umana, tutto il desiderio umano, tutta la vera devozione umana, la vera ricerca di Dio, che si trova finalmente realizzata in Cristo. Infine va detto che adesso è aperto il cielo, il culto non è più enigmatico, in segni relativi, ma è vero, perché il cielo è aperto e non si offre qualcosa, ma l’uomo diventa uno con Dio e questo è il vero culto. Così dice la Lettera agli Ebrei: “il nostro sacerdote sta alla destra del trono, del santuario, della vera tenda, che il Signore Dio stesso ha costruito” (cfr 8,1-2).

Ritorniamo al punto che Melchisedek è Re di Salem. Tutta la tradizione davidica si è richiamata a questo, dicendo: “Qui è il luogo, Gerusalemme è il luogo del vero culto, la concentrazione del culto a Gerusalemme viene già dai tempi abramici, Gerusalemme è il vero luogo della venerazione giusta di Dio”.

Facciamo un nuovo passo: la vera Gerusalemme, il Salem di Dio, è il Corpo di Cristo, l’Eucaristia è la pace di Dio con l’uomo. Sappiamo che san Giovanni, nel Prologo, chiama l’umanità di Gesù “la tenda di Dio”, eskenosen en hemin (Gv 1,14). Qui Dio stesso ha creato la sua tenda nel mondo e questa tenda, questa nuova, vera Gerusalemme è, nello stesso tempo sulla terra e in cielo, perché questo Sacramento, questo sacrificio si realizza sempre tra di noi e arriva sempre fino al trono della Grazia, alla presenza di Dio. Qui è la vera Gerusalemme, al medesimo tempo, celeste e terrestre, la tenda, che è il Corpo di Dio, che come Corpo risorto rimane sempre Corpo e abbraccia l’umanità e, nello stesso tempo, essendo Corpo risorto, ci unisce con Dio. Tutto questo si realizza sempre di nuovo nell’Eucaristia. E noi da sacerdoti siamo chiamati ad essere ministri di questo grande Mistero, nel Sacramento e nella vita. Preghiamo il Signore che ci faccia capire sempre meglio questo Mistero, di vivere sempre meglio questo Mistero e così offrire il nostro aiuto affinché il mondo si apra a Dio, affinché il mondo sia redento. Grazie

 


Benedetto XVI, Discorso all’apertura del Convegno Ecclesiale della diocesi di Roma, 15 giugno 2010

Dice il Salmo: “Ecco, com’è bello e com’è dolce / che i fratelli vivano insieme!” (Sal 133,1). È proprio così: è per me motivo di profonda gioia ritrovarmi con voi e condividere il tanto bene che le parrocchie e le altre realtà ecclesiali di Roma hanno realizzato in questo anno pastorale. Saluto con fraterno affetto il Cardinale Vicario e lo ringrazio per le cortesi parole che mi ha indirizzato e per l’impegno che quotidianamente pone nel governo della Diocesi, nel sostegno ai sacerdoti e alle comunità parrocchiali. Saluto i Vescovi Ausiliari, l’intero Presbiterio e ciascuno di voi. Rivolgo un pensiero cordiale a quanti sono ammalati e in particolari difficoltà, assicurando loro la mia preghiera.

Come ha ricordato il Cardinale Vallini, ci stiamo impegnando, dallo scorso anno, nella verifica della pastorale ordinaria. Questa sera riflettiamo su due punti di primaria importanza: “Eucaristia domenicale e testimonianza della carità”. Sono a conoscenza del grande lavoro che le parrocchie, le associazioni e i movimenti hanno realizzato, attraverso incontri di formazione e di confronto, per approfondire e vivere meglio queste due componenti fondamentali della vita e della missione della Chiesa e di ogni singolo credente. Ciò ha anche favorito quella corresponsabilità pastorale che, nella diversità dei ministeri e dei carismi, deve sempre più diffondersi se desideriamo realmente che il Vangelo raggiunga il cuore di ogni abitante di Roma. Tanto è stato fatto, e ne rendiamo grazie al Signore; ma ancora molto, sempre con il suo aiuto, rimane da fare.

La fede non può mai essere presupposta, perché ogni generazione ha bisogno di ricevere questo dono mediante l’annuncio del Vangelo e di conoscere la verità che Cristo ci ha rivelato. La Chiesa, pertanto, è sempre impegnata a proporre a tutti il deposito della fede; in esso è contenuta anche la dottrina sull’Eucaristia -mistero centrale in cui “è racchiuso tutto il bene spirituale della Chiesa, cioè lo stesso Cristo, nostra Pasqua” (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Presbyterorum ordinis, 5)-; dottrina che oggi, purtroppo, non è sufficientemente compresa nel suo valore profondo e nella sua rilevanza per l’esistenza dei credenti. Per questo è importante che una conoscenza più approfondita del mistero del Corpo e del Sangue del Signore sia avvertita come un’esigenza dalle diverse comunità della nostra diocesi di Roma. Al tempo stesso, nello spirito missionario che vogliamo alimentare, è necessario che si diffonda l’impegno di annunciare tale fede eucaristica, perché ogni uomo incontri Gesù Cristo che ci ha rivelato il Dio “vicino”, amico dell’umanità, e di testimoniarla con una eloquente vita di carità.

In tutta la sua vita pubblica Gesù, mediante la predicazione del Vangelo e i segni miracolosi, ha annunciato la bontà e la misericordia del Padre verso l’uomo. Questa missione ha raggiunto il culmine sul Golgota, dove Cristo crocifisso ha rivelato il volto di Dio, perché l’uomo, contemplando la Croce, possa riconoscere la pienezza dell’amore (cfr BENEDETTO XVI, Enc. Deus caritas est, 12). Il Sacrificio del Calvario viene mistericamente anticipato nell’Ultima Cena, quando Gesù, condividendo con i Dodici il pane e il vino, li trasforma nel suo corpo e nel suo sangue, che poco dopo avrebbe offerto come Agnello immolato. L’Eucaristia è il memoriale della morte e risurrezione di Gesù Cristo, del suo amore fino alla fine per ciascuno di noi, memoriale che Egli ha voluto affidare alla Chiesa perché fosse celebrato nei secoli. Secondo il significato del verbo ebraico zakar, il “memoriale” non è semplice ricordo di qualcosa che è avvenuto nel passato, ma celebrazione che attualizza quell’evento, in modo da riprodurne la forza e l’efficacia salvifica. Così “si rende presente e attuale il sacrificio che Cristo ha offerto al Padre, una volta per tutte, sulla Croce in favore dell’umanità” (Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, 280). Cari fratelli e sorelle, nel nostro tempo la parola sacrificio non è amata, anzi essa sembra appartenere ad altre epoche e a un altro modo di intendere la vita. Essa, però, ben compresa, è e rimane fondamentale, perché ci rivela di quale amore Dio, in Cristo, ci ama.

Nell’offerta che Gesù fa di se stesso troviamo tutta la novità del culto cristiano. Nell’antichità gli uomini offrivano in sacrificio alle divinità gli animali o le primizie della terra. Gesù, invece, offre se stesso, il suo corpo e l’intera sua esistenza: Egli stesso in persona diventa quel sacrificio che la liturgia offre nella Santa Messa. Infatti, con la consacrazione il pane e il vino diventano il suo vero corpo e sangue. Sant’Agostino invitava i suoi fedeli a non soffermarsi su ciò che appariva alla loro vista, ma ad andare oltre: “Riconoscete nel pane -diceva -quello stesso corpo che pendette sulla croce, e nel calice quello stesso sangue che sgorgò dal suo fianco” (Disc. 228 B, 2). Per spiegare questa trasformazione, la teologia ha coniato la parola “transustanziazione”, parola che risuonò per la prima volta in questa Basilica durante il IV Concilio Lateranense, di cui fra cinque anni ricorrerà l’VIII centenario. In quell’occasione furono inserite nella professione di fede le seguenti espressioni: “il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente nel sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo, e il vino nel sangue per divino potere” (DS, 802). È dunque fondamentale che negli itinerari di educazione alla fede dei bambini, degli adolescenti e dei giovani, come pure nei “centri di ascolto” della Parola di Dio, si sottolinei che nel sacramento dell’Eucaristia Cristo è veramente, realmente e sostanzialmente presente.

La Santa Messa, celebrata nel rispetto delle norme liturgiche e con un’adeguata valorizzazione della ricchezza dei segni e dei gesti, favorisce e promuove la crescita della fede eucaristica. Nella celebrazione eucaristica noi non inventiamo qualcosa, ma entriamo in una realtà che ci precede, anzi che abbraccia cielo e terra e quindi anche passato, futuro e presente. Questa apertura universale, questo incontro con tutti i figli e le figlie di Dio è la grandezza dell’Eucaristia: andiamo incontro alla realtà di Dio presente nel corpo e sangue del Risorto tra di noi. Quindi, le prescrizioni liturgiche dettate dalla Chiesa non sono cose esteriori, ma esprimono concretamente questa realtà della rivelazione del corpo e sangue di Cristo e così la preghiera rivela la fede secondo l’antico principio lex orandi - lex credendi. E per questo possiamo dire che “la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata” (BENEDETTO XVI, Esort. ap. post-sinod. Sacramentum caritatis, 64). È necessario che nella liturgia emerga con chiarezza la dimensione trascendente, quella del Mistero, dell’incontro con il Divino, che illumina ed eleva anche quella “orizzontale”, ossia il legame di comunione e di solidarietà che esiste fra quanti appartengono alla Chiesa. Infatti, quando prevale quest’ultima non si comprende pienamente la bellezza, la profondità e l’importanza del mistero celebrato. Cari fratelli nel sacerdozio, a voi il Vescovo ha affidato, nel giorno dell’Ordinazione sacerdotale, il compito di presiedere l’Eucaristia. Abbiate sempre a cuore l’esercizio di questa missione: celebrate i divini misteri con intensa partecipazione interiore, perché gli uomini e le donne della nostra Città possano essere santificati, messi in contatto con Dio, verità assoluta e amore eterno.

E teniamo anche presente che l’Eucaristia, legata alla croce alla risurrezione del Signore, ha dettato una nuova struttura al nostro tempo. Il Risorto si era manifestato il giorno dopo il sabato, il primo giorno della settimana, giorno del sole e della creazione. Dall’inizio i cristiani hanno celebrato il loro incontro con il Risorto, l’Eucaristia, in questo primo giorno, in questo nuovo giorno del vero sole della storia, il Cristo Risorto. E così il tempo inizia sempre di nuovo con l’incontro con il Risorto e questo incontro dà contenuto e forza alla vita di ogni giorno. Perciò è molto importante per noi cristiani, seguire questo ritmo nuovo del tempo, incontrarci col Risorto nella domenica e così “prendere” con noi questa sua presenza, che ci trasformi e trasformi il nostro tempo. Inoltre, invito tutti a riscoprire la fecondità dell’adorazione eucaristica: davanti al Santissimo Sacramento sperimentiamo in modo del tutto particolare quel “rimanere” di Gesù, che Egli stesso, nel Vangelo di Giovanni, pone come condizione necessaria per portare molto frutto (cfr Gv 15,5) ed evitare che la nostra azione apostolica si riduca a uno sterile attivismo, ma sia invece testimonianza dell’amore di Dio.

La comunione con Cristo è sempre anche comunione con il suo corpo che è la Chiesa, come ricorda l’apostolo Paolo dicendo: “Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16-17). È, infatti, l’Eucaristia che trasforma un semplice gruppo di persone in comunità ecclesiale: l’Eucaristia fa Chiesa. È dunque fondamentale che la celebrazione della Santa Messa sia effettivamente il culmine, la “struttura portante” della vita di ogni comunità parrocchiale. Esorto tutti a curare al meglio, anche attraverso appositi gruppi liturgici, la preparazione e la celebrazione dell’Eucaristia, perché quanti vi partecipano possano incontrare il Signore. È Cristo risorto, che si rende presente nel nostro oggi e ci raduna intorno a sé. Nutrendoci di Lui siamo liberati dai vincoli dell’individualismo e, per mezzo della comunione con Lui, diventiamo noi stessi, insieme, una cosa sola, il suo Corpo mistico. Vengono così superate le differenze dovute alla professione, al ceto, alla nazionalità, perché ci scopriamo membri di un’unica grande famiglia, quella dei figli di Dio, nella quale a ciascuno è donata una grazia particolare per l’utilità comune. Il mondo e gli uomini non hanno bisogno di un’ulteriore aggregazione sociale, ma hanno bisogno della Chiesa, che è in Cristo come un sacramento, “cioè segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano” (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Lumen gentium, 1), chiamata a far risplendere su tutte le genti la luce del Signore risorto.

Gesù è venuto per rivelarci l’amore del Padre, perché “l’uomo senza amore non può vivere” (GIOVANNI PAOLO II, Enc. Redemptor hominis, 10). L’amore è, infatti, l’esperienza fondamentale di ogni essere umano, ciò che dà significato al vivere quotidiano. Nutriti dall’Eucaristia anche noi, sull’esempio di Cristo, viviamo per Lui, per essere testimoni dell’amore. Ricevendo il Sacramento, noi entriamo in comunione di sangue con Gesù Cristo. Nella concezione ebraica, il sangue indica la vita; così possiamo dire che nutrendoci del Corpo di Cristo noi accogliamo la vita di Dio e impariamo a guardare la realtà con i suoi occhi, abbandonando la logica del mondo per seguire quella divina del dono e della gratuità. Sant’Agostino ricorda che durante una visione gli parve di udire la voce del Signore, il quale gli diceva: “Io sono il nutrimento degli adulti. Cresci, e mi mangerai, senza per questo trasformarmi in te, come il nutrimento della tua carne; ma tu ti trasformerai in me” (cfr Confessioni VII,10,16). Quando riceviamo Cristo, l’amore di Dio si espande nel nostro intimo, modifica radicalmente il nostro cuore e ci rende capaci di gesti che, per la forza diffusiva del bene, possono trasformare la vita di coloro che ci sono accanto. La carità è in grado di generare un cambiamento autentico e permanente della società, agendo nei cuori e nelle menti degli uomini, e quando è vissuta nella verità “è la principale forza propulsiva per il vero sviluppo di ogni persona e dell’umanità intera” (BENEDETTO XVI, Enc. Caritas in veritate, 1). La testimonianza della carità per il discepolo di Gesù non è un sentimento passeggero, ma al contrario è ciò che plasma la vita in ogni circostanza. Incoraggio tutti, in particolare la Caritas e i Diaconi, a impegnarsi nel delicato e fondamentale campo dell’educazione alla carità, come dimensione permanente della vita personale e comunitaria.

Questa nostra Città chiede ai discepoli di Cristo, con un rinnovato annuncio del Vangelo, una più chiara e limpida testimonianza della carità. È con il linguaggio dell’amore, desideroso del bene integrale dell’uomo, che la Chiesa parla agli abitanti di Roma. In questi anni del mio ministero quale vostro Vescovo, ho avuto modo di visitare vari luoghi dove la carità è vissuta in modo intenso. Sono grato a quanti si impegnano nelle diverse strutture caritative, per la dedizione e la generosità con le quali servono i poveri e gli emarginati. I bisogni e la povertà di tanti uomini e donne ci interpellano profondamente: è Cristo stesso che ogni giorno, nei poveri, ci chiede di essere sfamato e dissetato, visitato negli ospedali e nelle carceri, accolto e vestito. L’Eucaristia celebrata ci impone e al tempo stesso ci rende capaci di diventare, a nostra volta, pane spezzato per i fratelli, venendo incontro alle loro esigenze e donando noi stessi. Per questo una celebrazione eucaristica che non conduce ad incontrare gli uomini lì dove essi vivono, lavorano e soffrono, per portare loro l’amore di Dio, non manifesta la verità che racchiude. Per essere fedeli al mistero che si celebra sugli altari dobbiamo, come ci esorta l’apostolo Paolo, offrire i nostri corpi, noi stessi, in sacrificio spirituale gradito a Dio (cfr Rm 12,1) in quelle circostanze che richiedono di far morire il nostro io e costituiscono il nostro “altare” quotidiano. I gesti di condivisione creano comunione, rinnovano il tessuto delle relazioni interpersonali, improntandole alla gratuità e al dono, e permettono la costruzione della civiltà dell’amore. In un tempo come il presente di crisi economica e sociale, siamo solidali con coloro che vivono nell’indigenza per offrire a tutti la speranza di un domani migliore e degno dell’uomo. Se realmente vivremo come discepoli del Dio-Carità, aiuteremo gli abitanti di Roma a scoprirsi fratelli e figli dell’unico Padre.

La natura stessa dell’amore richiede scelte di vita definitive e irrevocabili. Mi rivolgo in particolare a voi, carissimi giovani: non abbiate paura di scegliere l’amore come la regola suprema della vita. Non abbiate paura di amare Cristo nel sacerdozio e, se nel cuore avvertite la chiamata del Signore, seguitelo in questa straordinaria avventura di amore, abbandonandovi con fiducia a Lui! Non abbiate paura di formare famiglie cristiane che vivono l’amore fedele, indissolubile e aperto alla vita! Testimoniate che l’amore, così come lo ha vissuto Cristo e lo insegna il Magistero della Chiesa, non toglie nulla alla nostra felicità, ma al contrario dona quella gioia profonda che Cristo ha promesso ai suoi discepoli.

La Vergine Maria accompagni con la sua materna intercessione il cammino della nostra Chiesa di Roma. Maria, che in modo del tutto singolare visse la comunione con Dio e il sacrificio del proprio Figlio sul Calvario, ci ottenga di vivere sempre più intensamente, piamente e consapevolmente il mistero dell’Eucaristia, per annunciare con la parola e la vita l’amore che Dio nutre per ogni uomo. Cari amici, vi assicuro la mia preghiera e imparto di cuore a tutti voi la Benedizione Apostolica. Grazie.

 

 


Benedetto XVI, Messaggio al Cardinale Angelo Bagnasco in occasione della LXII Assemblea Generale della Conferenza Episcopale Italiana, 4 novembre 2010

 (...) 1. In questi giorni siete riuniti ad Assisi, la città nella quale “nacque al mondo un sole” (Dante, Paradiso, Canto XI), proclamato dal Venerabile Pio XII Patrono d’Italia: san Francesco, che conserva intatte la sua freschezza e la sua attualità -i Santi non tramontano mai! -dovute al suo essersi conformato totalmente a Cristo, di cui fu icona viva. Come il nostro, anche il tempo in cui visse san Francesco era segnato da profonde trasformazioni culturali, favorite dalla nascita delle università, dallo sviluppo dei comuni e dal diffondersi di nuove esperienze religiose.

Proprio in quella stagione, grazie all’opera di Papa Innocenzo III -lo stesso dal quale il Poverello di Assisi ottenne il primo riconoscimento canonico -la Chiesa avviò una profonda riforma liturgica. Ne è espressione eminente il Concilio Lateranense IV (1215), che annovera tra i suoi frutti il “Breviario”. Questo libro di preghiera accoglieva in sé la ricchezza della riflessione teologica e del vissuto orante del millennio precedente. Adottandolo, san Francesco e i suoi frati fecero propria la preghiera liturgica del Sommo Pontefice: in questo modo il Santo ascoltava e meditava assiduamente la Parola di Dio, fino a farla sua e a trasporla poi nelle preghiere di cui è autore, come in generale in tutti i suoi scritti.

Lo stesso Concilio Lateranense IV, considerando con particolare attenzione il Sacramento dell’altare, inserì nella professione di fede il termine “transustanziazione”, per affermare la presenza reale di Cristo nel sacrificio eucaristico: “Il suo corpo e il suo sangue sono contenuti veramente nel Sacramento dell’altare, sotto le specie del pane e del vino, poiché il pane è transustanziato nel corpo e il vino nel sangue per divino potere” (DS, 802).

Dall’assistere alla santa Messa e dal ricevere con devozione la santa Comunione sgorga la vita evangelica di san Francesco e la sua vocazione a ripercorrere il cammino di Cristo Crocifisso: “Il Signore -leggiamo nel Testamento del 1226 -mi dette tanta fede nelle chiese, che così semplicemente pregavo e dicevo: Ti adoriamo, Signore Gesù, in tutte le tue chiese che sono nel mondo intero e ti benediciamo, poiché con la tua santa croce hai redento il mondo” (Fonti Francescane, n. 111).

In questa esperienza trova origine anche la grande deferenza che portava ai sacerdoti e la consegna ai frati di rispettarli sempre e comunque, “perché dell’altissimo Figlio di Dio nient’altro io vedo corporalmente in questo mondo, se non il Santissimo Corpo e il Sangue suo che essi soli consacrano ed essi soli amministrano agli altri” (Fonti Francescane, n. 113).

Davanti a tale dono, cari Fratelli, quale responsabilità di vita ne consegue per ognuno di noi! “Badate alla vostra dignità, frati sacerdoti - raccomandava ancora Francesco -e siate santi perché egli è santo” (Lettera al Capitolo Generale e a tutti i frati, in Fonti Francescane, n. 220)! Sì, la santità dell’Eucaristia esige che si celebri e si adori questo Mistero consapevoli della sua grandezza, importanza ed efficacia per la vita cristiana, ma esige anche purezza, coerenza e santità di vita da ciascuno di noi, per essere testimoni viventi dell’unico Sacrificio di amore di Cristo.

Il Santo di Assisi non smetteva di contemplare come “il Signore dell’universo, Dio e Figlio di Dio, così si umilî da nascondersi, per la nostra salvezza, in poca apparenza di pane” (ibid., n. 221), e con veemenza chiedeva ai suoi frati: “Vi prego, più che se lo facessi per me stesso, che quando conviene e lo vedrete necessario, supplichiate umilmente i sacerdoti perché venerino sopra ogni cosa il Santissimo Corpo e il Sangue del Signore nostro Gesù Cristo e i santi nomi e le parole di Lui scritte che consacrano il corpo” (Lettera a tutti i custodi, in Fonti Francescane, n. 241).

 


Benedetto XVI, Omelia Santa Messa nella Cena del Signore, 21 aprile 2011

“Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione” (Lc 22,15): con queste parole Gesù ha inaugurato la celebrazione del suo ultimo convito e dell’istituzione della santa Eucaristia. Gesù è andato incontro a quell’ora desiderandola. Nel suo intimo ha atteso quel momento in cui avrebbe donato se stesso ai suoi sotto le specie del pane e del vino. Ha atteso quel momento che avrebbe dovuto essere in qualche modo le vere nozze messianiche: la trasformazione dei doni di questa terra e il diventare una cosa sola con i suoi, per trasformarli ed inaugurare così la trasformazione del mondo. Nel desiderio di Gesù possiamo riconoscere il desiderio di Dio stesso -il suo amore per gli uomini, per la sua creazione, un amore in attesa. L’amore che attende il momento dell’unione, l’amore che vuole attirare gli uomini a sé, per dare compimento con ciò anche al desiderio della stessa creazione: essa, infatti, è protesa verso la manifestazione dei figli di Dio (cfr Rm 8,19). Gesù ha desiderio di noi, ci attende.

E noi, abbiamo veramente desiderio di Lui? C’è dentro di noi la spinta ad incontrarLo? Bramiamo la sua vicinanza, il diventare una cosa sola con Lui, di cui Egli ci fa dono nella santa Eucaristia? Oppure siamo indifferenti, distratti, pieni di altro? Dalle parabole di Gesù sui banchetti sappiamo che Egli conosce la realtà dei posti rimasti vuoti, la risposta negativa, il disinteresse per Lui e per la sua vicinanza. I posti vuoti al banchetto nuziale del Signore, con o senza scuse, sono per noi, ormai da tempo, non una parabola, bensì una realtà presente, proprio in quei Paesi ai quali Egli aveva manifestato la sua vicinanza particolare. Gesù sapeva anche di ospiti che sarebbero sì venuti, ma senza essere vestiti in modo nuziale -senza gioia per la sua vicinanza, seguendo solo un’abitudine, e con tutt’altro orientamento della loro vita. San Gregorio Magno, in una delle sue omelie, si domandava: Che genere di persone sono quelle che vengono senza abito nuziale? In che cosa consiste questo abito e come lo si acquista? La sua risposta è: Quelli che sono stati chiamati e vengono hanno in qualche modo fede. È la fede che apre loro la porta. Ma manca loro l’abito nuziale dell’amore. Chi vive la fede non come amore non è preparato per le nozze e viene mandato fuori. La comunione eucaristica richiede la fede, ma la fede richiede l’amore, altrimenti è morta anche come fede.

Da tutti e quattro i Vangeli sappiamo che l’ultimo convito di Gesù prima della Passione fu anche un luogo di annuncio. Gesù ha proposto ancora una volta con insistenza gli elementi portanti del suo messaggio. Parola e Sacramento, messaggio e dono stanno inscindibilmente insieme. Ma durante l’ultimo convito, Gesù ha soprattutto pregato. Matteo, Marco e Luca usano due parole per descrivere la preghiera di Gesù nel punto centrale della Cena: “eucharistesas” ed “eulogesas” -”ringraziare” e “benedire”. Il movimento ascendente del ringraziare e quello discendente del benedire vanno insieme. Le parole della transustanziazione sono parte di questa preghiera di Gesù. Sono parole di preghiera. Gesù trasforma la sua Passione in preghiera, in offerta al Padre per gli uomini. Questa trasformazione della sua sofferenza in amore possiede una forza trasformatrice per i doni, nei quali ora Egli dà se stesso. Egli li dà a noi affinché noi e il mondo siamo trasformati. Lo scopo proprio e ultimo della trasformazione eucaristica è la nostra stessa trasformazione nella comunione con Cristo. L’Eucaristia ha di mira l’uomo nuovo, il mondo nuovo così come esso può nascere soltanto a partire da Dio mediante l’opera del Servo di Dio.

Da Luca e soprattutto da Giovanni sappiamo che Gesù nella sua preghiera durante l’Ultima Cena ha anche rivolto suppliche al Padre -suppliche che al tempo stesso contengono appelli ai suoi discepoli di allora e di tutti i tempi. Vorrei in quest’ora scegliere soltanto una supplica che, secondo Giovanni, Gesù ha ripetuto quattro volte nella sua Preghiera sacerdotale. Quanto deve averLo angustiato nel suo intimo! Essa rimane continuamente la sua preghiera al Padre per noi: è la preghiera per l’unità. Gesù dice esplicitamente che tale supplica non vale soltanto per i discepoli allora presenti, ma ha di mira tutti coloro che crederanno in Lui (cfr Gv 17,20). Chiede che tutti diventino una sola cosa “come tu, Padre, sei in me e io in te ...perché il mondo creda” (Gv 17,21).

L’unità dei cristiani può esserci soltanto se i cristiani sono intimamente uniti a Lui, a Gesù. Fede e amore per Gesù, fede nel suo essere uno col Padre e apertura all’unità con Lui sono essenziali. Questa unità non è dunque una cosa soltanto interiore, mistica. Deve diventare visibile, così visibile da costituire per il mondo la prova della missione di Gesù da parte del Padre. Per questo tale supplica ha un nascosto senso eucaristico che Paolo ha chiaramente evidenziato nella Prima Lettera ai Corinzi: “Il pane che noi spezziamo non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1Cor 10,16s). Con l’Eucaristia nasce la Chiesa. Noi tutti mangiamo lo stesso pane, riceviamo lo stesso corpo del Signore e questo significa: Egli apre ciascuno di noi al di là di se stesso. Egli ci rende tutti una cosa sola. L’Eucaristia è il mistero dell’intima vicinanza e comunione di ogni singolo col Signore. Ed è, al tempo stesso, l’unione visibile tra tutti. L’Eucaristia è Sacramento dell’unità. Essa giunge fin nel mistero trinitario, e crea così al contempo l’unità visibile. Diciamolo ancora una volta: essa è l’incontro personalissimo col Signore e, tuttavia, non è mai soltanto un atto di devozione individuale. La celebriamo necessariamente insieme. In ogni comunità vi è il Signore in modo totale. Ma Egli è uno solo in tutte le comunità. Per questo, della Preghiera eucaristica della Chiesa fanno necessariamente parte le parole: “una cum Papa nostro et cum Episcopo nostro”. Questa non è un’aggiunta esteriore a ciò che avviene interiormente, bensì espressione necessaria della realtà eucaristica stessa. E menzioniamo il Papa e il Vescovo per nome: l’unità è del tutto concreta, ha dei nomi. Così l’unità diventa visibile, diventa segno per il mondo e stabilisce per noi stessi un criterio concreto.

San Luca ci ha conservato un elemento concreto della preghiera di Gesù per l’unità: “Simone, Simone, ecco: Satana vi ha cercati per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, perché la tua fede non venga meno. E tu, una volta convertito, conferma i tuoi fratelli” (Lc 22,31s). Oggi constatiamo con dolore nuovamente che a Satana è stato concesso di vagliare i discepoli visibilmente davanti a tutto il mondo. E sappiamo che Gesù prega per la fede di Pietro e dei suoi successori. Sappiamo che Pietro, che attraverso le acque agitate della storia va incontro al Signore ed è in pericolo di affondare, viene sempre di nuovo sorretto dalla mano del Signore e guidato sulle acque. Ma poi segue un annuncio e un incarico. “Tu, una volta convertito...”: Tutti gli esseri umani, eccetto Maria, hanno continuamente bisogno di conversione. Gesù predice a Pietro la sua caduta e la sua conversione. Da che cosa Pietro ha dovuto convertirsi? All’inizio della sua chiamata, spaventato dal potere divino del Signore e dalla propria miseria, Pietro aveva detto: “Signore, allontanati da me, perché sono un peccatore!” (Lc 5,8). Alla luce del Signore egli riconosce la sua insufficienza. Proprio così, nell’umiltà di chi sa di essere peccatore, egli viene chiamato. Egli deve sempre di nuovo ritrovare questa umiltà. Presso Cesarea di Filippo Pietro non aveva voluto accettare che Gesù avrebbe dovuto soffrire ed essere crocifisso. Ciò non era conciliabile con la sua immagine di Dio e del Messia. Nel cenacolo egli non ha voluto accettare che Gesù gli lavasse i piedi: ciò non si adattava alla sua immagine della dignità del Maestro. Nell’orto degli ulivi ha colpito con la spada. Voleva dimostrare il suo coraggio. Davanti alla serva, però, ha affermato di non conoscere Gesù. In quel momento ciò gli sembrava una piccola bugia, per poter rimanere nelle vicinanze di Gesù. Il suo eroismo è crollato in un gioco meschino per un posto al centro degli avvenimenti. Tutti noi dobbiamo sempre di nuovo imparare ad accettare Dio e Gesù Cristo così come Egli è, e non come noi vorremmo che fosse. Anche noi stentiamo ad accettare che Egli si sia legato ai limiti della sua Chiesa e dei suoi ministri. Anche noi non vogliamo accettare che Egli sia senza potere in questo mondo. Anche noi ci nascondiamo dietro pretesti, quando l’appartenenza a Lui ci diventa troppo costosa e troppo pericolosa. Tutti noi abbiamo bisogno di conversione che accoglie Gesù nel suo essere-Dio ed essere-Uomo. Abbiamo bisogno dell’umiltà del discepolo che segue la volontà del Maestro. In quest’ora vogliamo pregarLo di guardare anche a noi come ha guardato Pietro, nel momento opportuno, con i suoi occhi benevoli, e di convertirci.

Pietro, il convertito, è chiamato a confermare i suoi fratelli. Non è un fatto esteriore che questo compito gli venga affidato nel cenacolo. Il servizio dell’unità ha il suo luogo visibile nella celebrazione della santa Eucaristia. Cari amici, per il Papa è un grande conforto sapere che in ogni Celebrazione eucaristica tutti pregano per lui; che la nostra preghiera si unisce alla preghiera del Signore per Pietro. Solo grazie alla preghiera del Signore e della Chiesa il Papa può corrispondere al suo compito di confermare i fratelli -di pascere il gregge di Gesù e di farsi garante per quell’unità che diventa testimonianza visibile della missione di Gesù da parte del Padre.

“Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi”. Signore, tu hai desiderio di noi, di me. Tu hai desiderio di partecipare te stesso a noi nella santa Eucaristia, di unirti a noi. Signore, suscita anche in noi il desiderio di te. Rafforzaci nell’unità con te e tra di noi. Dona alla tua Chiesa l’unità, perché il mondo creda. Amen.

 


Benedetto XVI, Omelia Santa Messa Corpus Domini, Basilica di San Giovanni in Laterano,  23 giugno 2011

La festa del Corpus Domini è inseparabile dal Giovedì Santo, dalla Messa in Caena Domini, nella quale si celebra solennemente l’istituzione dell’Eucaristia. Mentre nella sera del Giovedì Santo si rivive il mistero di Cristo che si offre a noi nel pane spezzato e nel vino versato, oggi, nella ricorrenza del Corpus Domini, questo stesso mistero viene proposto all’adorazione e alla meditazione del Popolo di Dio, e il Santissimo Sacramento viene portato in processione per le vie delle città e dei villaggi, per manifestare che Cristo risorto cammina in mezzo a noi e ci guida verso il Regno dei cieli. Quello che Gesù ci ha donato nell’intimità del Cenacolo, oggi lo manifestiamo apertamente, perché l’amore di Cristo non è riservato ad alcuni, ma è destinato a tutti. Nella Messa in Caena Domini dello scorso Giovedì Santo ho sottolineato che nell’Eucaristia avviene la trasformazione dei doni di questa terra -il pane e il vino- finalizzata a trasformare la nostra vita e ad inaugurare così la trasformazione del mondo. Questa sera vorrei riprendere tale prospettiva.

Tutto parte, si potrebbe dire, dal cuore di Cristo, che nell’Ultima Cena, alla vigilia della sua passione, ha ringraziato e lodato Dio e, così facendo, con la potenza del suo amore, ha trasformato il senso della morte alla quale andava incontro. Il fatto che il Sacramento dell’altare abbia assunto il nome “Eucaristia” -”rendimento di grazie” -esprime proprio questo: che il mutamento della sostanza del pane e del vino nel Corpo e Sangue di Cristo è frutto del dono che Cristo ha fatto di se stesso, dono di un Amore più forte della morte, Amore divino che lo ha fatto risuscitare dai morti. Ecco perché l’Eucaristia è cibo di vita eterna, Pane della vita. Dal cuore di Cristo, dalla sua “preghiera eucaristica” alla vigilia della passione, scaturisce quel dinamismo che trasforma la realtà nelle sue dimensioni cosmica, umana e storica. Tutto procede da Dio, dall’onnipotenza del suo Amore Uno e Trino, incarnato in Gesù. In questo Amore è immerso il cuore di Cristo; perciò Egli sa ringraziare e lodare Dio anche di fronte al tradimento e alla violenza, e in questo modo cambia le cose, le persone e il mondo.

Questa trasformazione è possibile grazie ad una comunione più forte della divisione, la comunione di Dio stesso. La parola “comunione”, che noi usiamo anche per designare l’Eucaristia, riassume in sé la dimensione verticale e quella orizzontale del dono di Cristo. E’ bella e molto eloquente l’espressione “ricevere la comunione” riferita all’atto di mangiare il Pane eucaristico. In effetti, quando compiamo questo atto, noi entriamo in comunione con la vita stessa di Gesù, nel dinamismo di questa vita che si dona a noi e per noi. Da Dio, attraverso Gesù, fino a noi: un’unica comunione si trasmette nella santa Eucaristia. Lo abbiamo ascoltato poco fa, nella seconda Lettura, dalle parole dell’apostolo Paolo rivolte ai cristiani di Corinto: “Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane” (1 Cor 10,16-17).

Sant’Agostino ci aiuta a comprendere la dinamica della comunione eucaristica quando fa riferimento ad una sorta di visione che ebbe, nella quale Gesù gli disse: “Io sono il cibo dei forti. Cresci e mi avrai. Tu non trasformerai me in te, come il cibo del corpo, ma sarai tu ad essere trasformato in me” (Conf. VII, 10, 18). Mentre dunque il cibo corporale viene assimilato dal nostro organismo e contribuisce al suo sostentamento, nel caso dell’Eucaristia si tratta di un Pane differente: non siamo noi ad assimilarlo, ma esso ci assimila a sé, così che diventiamo conformi a Gesù Cristo, membra del suo corpo, una cosa sola con Lui. Questo passaggio è decisivo. Infatti, proprio perché è Cristo che, nella comunione eucaristica, ci trasforma in Sé, la nostra individualità, in questo incontro, viene aperta, liberata dal suo egocentrismo e inserita nella Persona di Gesù, che a sua volta è immersa nella comunione trinitaria. Così l’Eucaristia, mentre ci unisce a Cristo, ci apre anche agli altri, ci rende membra gli uni degli altri: non siamo più divisi, ma una cosa sola in Lui. La comunione eucaristica mi unisce alla persona che ho accanto, e con la quale forse non ho nemmeno un buon rapporto, ma anche ai fratelli lontani, in ogni parte del mondo. Da qui, dall’Eucaristia, deriva dunque il senso profondo della presenza sociale della Chiesa, come testimoniano i grandi Santi sociali, che sono stati sempre grandi anime eucaristiche. Chi riconosce Gesù nell’Ostia santa, lo riconosce nel fratello che soffre, che ha fame e ha sete, che è forestiero, ignudo, malato, carcerato; ed è attento ad ogni persona, si impegna, in modo concreto, per tutti coloro che sono in necessità. Dal dono di amore di Cristo proviene pertanto la nostra speciale responsabilità di cristiani nella costruzione di una società solidale, giusta, fraterna. Specialmente nel nostro tempo, in cui la globalizzazione ci rende sempre più dipendenti gli uni dagli altri, il Cristianesimo può e deve far sì che questa unità non si costruisca senza Dio, cioè senza il vero Amore, il che darebbe spazio alla confusione, all’individualismo, alla sopraffazione di tutti contro tutti. Il Vangelo mira da sempre all’unità della famiglia umana, un’unità non imposta da fuori, né da interessi ideologici o economici, bensì a partire dal senso di responsabilità gli uni verso gli altri, perché ci riconosciamo membra di uno stesso corpo, del corpo di Cristo, perché abbiamo imparato e impariamo costantemente dal Sacramento dell’Altare che la condivisione, l’amore è la via della vera giustizia.

Ritorniamo ora all’atto di Gesù nell’Ultima Cena. Che cosa è avvenuto in quel momento? Quando Egli disse: Questo è il mio corpo che è donato per voi, questo è il mio sangue versato per voi e per la moltitudine, che cosa accadde? Gesù in quel gesto anticipa l’evento del Calvario. Egli accetta per amore tutta la passione, con il suo travaglio e la sua violenza, fino alla morte di croce; accettandola in questo modo la trasforma in un atto di donazione. Questa è la trasformazione di cui il mondo ha più bisogno, perché lo redime dall’interno, lo apre alle dimensioni del Regno dei cieli. Ma questo rinnovamento del mondo Dio vuole realizzarlo sempre attraverso la stessa via seguita da Cristo, quella via, anzi, che è Lui stesso. Non c’è nulla di magico nel Cristianesimo. Non ci sono scorciatoie, ma tutto passa attraverso la logica umile e paziente del chicco di grano che si spezza per dare vita, la logica della fede che sposta le montagne con la forza mite di Dio. Per questo Dio vuole continuare a rinnovare l’umanità, la storia ed il cosmo attraverso questa catena di trasformazioni, di cui l’Eucaristia è il sacramento. Mediante il pane e il vino consacrati, in cui è realmente presente il suo Corpo e Sangue, Cristo trasforma noi, assimilandoci a Lui: ci coinvolge nella sua opera di redenzione, rendendoci capaci, per la grazia dello Spirito Santo, di vivere secondo la sua stessa logica di donazione, come chicchi di grano uniti a Lui ed in Lui. Così si seminano e vanno maturando nei solchi della storia l’unità e la pace, che sono il fine a cui tendiamo, secondo il disegno di Dio.

Senza illusioni, senza utopie ideologiche, noi camminiamo per le strade del mondo, portando dentro di noi il Corpo del Signore, come la Vergine Maria nel mistero della Visitazione. Con l’umiltà di saperci semplici chicchi di grano, custodiamo la ferma certezza che l’amore di Dio, incarnato in Cristo, è più forte del male, della violenza e della morte. Sappiamo che Dio prepara per tutti gli uomini cieli nuovi e terra nuova, in cui regnano la pace e la giustizia -e nella fede intravediamo il mondo nuovo, che è la nostra vera patria. Anche questa sera, mentre tramonta il sole su questa nostra amata città di Roma, noi ci mettiamo in cammino: con noi c’è Gesù Eucaristia, il Risorto, che ha detto: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Grazie, Signore Gesù! Grazie per la tua fedeltà, che sostiene la nostra speranza. Resta con noi, perché si fa sera. “Buon Pastore, vero Pane, o Gesù, pietà di noi; nutrici, difendici, portaci ai beni eterni, nella terra dei viventi!”. Amen.

 


Benedetto XVI, Omelia Santa Messa Corpus Domini, Basilica di San Giovanni in Laterano, 7 giugno 2012

Questa sera vorrei meditare con voi su due aspetti, tra loro connessi, del Mistero eucaristico: il culto dell’Eucaristia e la sua sacralità. E’ importante riprenderli in considerazione per preservarli da visioni non complete del Mistero stesso, come quelle che si sono riscontrate nel recente passato.

Anzitutto, una riflessione sul valore del culto eucaristico, in particolare dell’adorazione del Santissimo Sacramento. E’ l’esperienza che anche questa sera noi vivremo dopo la Messa, prima della processione, durante il suo svolgimento e al suo termine. Una interpretazione unilaterale del Concilio Vaticano II aveva  penalizzato questa dimensione, restringendo in pratica l’Eucaristia al momento celebrativo. In effetti, è stato molto importante riconoscere la centralità della celebrazione, in cui il Signore convoca il suo popolo, lo raduna intorno alla duplice mensa della Parola e del Pane di vita, lo nutre e lo unisce a Sé nell’offerta del Sacrificio. Questa valorizzazione dell’assemblea liturgica, in cui il Signore opera e realizza il suo mistero di comunione, rimane ovviamente valida, ma essa va ricollocata nel giusto equilibrio. In effetti - come spesso avviene - per sottolineare un aspetto si finisce per sacrificarne un altro. In questo caso, l’accentuazione giusta posta sulla celebrazione dell’Eucaristia è andata a scapito dell’adorazione, come atto di fede e di preghiera rivolto al Signore Gesù, realmente presente nel Sacramento dell’altare. Questo sbilanciamento ha avuto ripercussioni anche sulla vita spirituale dei fedeli. Infatti, concentrando tutto il rapporto con Gesù Eucaristia nel solo momento della Santa Messa, si rischia di svuotare della sua presenza il resto del tempo e dello spazio esistenziali. E così si percepisce meno il senso della presenza costante di Gesù in mezzo a noi e con noi, una presenza concreta, vicina, tra le nostre case, come «Cuore pulsante» della città, del paese, del territorio con le sue varie espressioni e attività. Il Sacramento della Carità di Cristo deve permeare tutta la vita quotidiana.

In realtà, è sbagliato contrapporre la celebrazione e l’adorazione, come se fossero in concorrenza l’una con l’altra. E’ proprio il contrario: il culto del Santissimo Sacramento costituisce come l’«ambiente» spirituale entro il quale la comunità può celebrare bene e in verità l’Eucaristia. Solo se è preceduta, accompagnata e seguita da questo atteggiamento interiore di fede e di adorazione, l’azione liturgica può esprimere il suo pieno significato e valore. L’incontro con Gesù nella Santa Messa si attua veramente e pienamente quando la comunità è in grado di riconoscere che Egli, nel Sacramento, abita la sua casa, ci attende, ci invita alla sua mensa, e poi, dopo che l’assemblea si è sciolta, rimane con noi, con la sua presenza discreta e silenziosa, e ci accompagna con la sua intercessione, continuando a raccogliere i nostri sacrifici spirituali e ad offrirli al Padre.

A questo proposito, mi piace sottolineare l’esperienza che vivremo anche stasera insieme. Nel momento dell’adorazione, noi siamo tutti sullo stesso piano, in ginocchio davanti al Sacramento dell’Amore. Il sacerdozio comune e quello ministeriale si trovano accomunati nel culto eucaristico. E’ un’esperienza molto bella e significativa, che abbiamo vissuto diverse volte nella Basilica di San Pietro, e anche nelle indimenticabili veglie con i giovani - ricordo ad esempio quelle di Colonia, Londra, Zagabria, Madrid. E’ evidente a tutti che questi momenti di veglia eucaristica preparano la celebrazione della Santa Messa, preparano i cuori all’incontro, così che questo risulta anche più fruttuoso. Stare tutti in silenzio prolungato davanti al Signore presente nel suo Sacramento, è una delle esperienze più autentiche del nostro essere Chiesa, che si accompagna in modo complementare con quella di celebrare l’Eucaristia, ascoltando la Parola di Dio, cantando, accostandosi insieme alla mensa del Pane di vita. Comunione e contemplazione non si possono separare, vanno insieme. Per comunicare veramente con un’altra persona devo conoscerla, saper stare in silenzio vicino a lei, ascoltarla, guardarla con amore. Il vero amore e la vera amicizia vivono sempre di questa reciprocità di sguardi, di silenzi intensi, eloquenti, pieni di rispetto e di venerazione, così che l’incontro sia vissuto profondamente, in modo personale e non superficiale. E purtroppo, se manca questa dimensione, anche la stessa comunione sacramentale può diventare, da parte nostra, un gesto superficiale. Invece, nella vera comunione, preparata dal colloquio della preghiera e della vita, noi possiamo dire al Signore parole di confidenza, come quelle risuonate poco fa nel Salmo responsoriale: «Io sono tuo servo, figlio della tua schiava: / tu hai spezzato le mie catene. / A te offrirò un sacrificio di ringraziamento / e invocherò il nome del Signore» (Sal 115,16-17).

Ora vorrei passare brevemente al secondo aspetto: la sacralità dell’Eucaristia. Anche qui abbiamo risentito nel passato recente di un certo fraintendimento del messaggio autentico della Sacra Scrittura. La novità cristiana riguardo al culto è stata influenzata da una certa mentalità secolaristica degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. E’ vero, e rimane sempre valido, che il centro del culto ormai non sta più nei riti e nei sacrifici antichi, ma in Cristo stesso, nella sua persona, nella sua vita, nel suo mistero pasquale. E tuttavia da questa novità fondamentale non si deve concludere che il sacro non esista più, ma che esso ha trovato il suo compimento in Gesù Cristo, Amore divino incarnato. La Lettera agli Ebrei, che abbiamo ascoltato questa sera nella seconda Lettura, ci parla proprio della novità del sacerdozio di Cristo, «sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), ma non dice che il sacerdozio sia finito. Cristo «è mediatore di un’alleanza nuova» (Eb 9,15), stabilita nel suo sangue, che purifica «la nostra coscienza dalle opere di morte» (Eb 9,14). Egli non ha abolito il sacro, ma lo ha portato a compimento, inaugurando un nuovo culto, che è sì pienamente spirituale, ma che tuttavia, finché siamo in cammino nel tempo, si serve ancora di segni e di riti, che verranno meno solo alla fine, nella Gerusalemme celeste, dove non ci sarà più alcun tempio (cfr Ap 21,22). Grazie a Cristo, la sacralità è più vera, più intensa, e, come avviene per i comandamenti, anche più esigente! Non basta l’osservanza rituale, ma si richiede la purificazione del cuore e il coinvolgimento della vita.

Mi piace anche sottolineare che il sacro ha una funzione educativa, e la sua scomparsa inevitabilmente impoverisce la cultura, in particolare la formazione delle nuove generazioni. Se, per esempio, in nome di una fede secolarizzata e non più bisognosa di segni sacri, venisse abolita questa processione cittadina del Corpus Domini, il profilo spirituale di Roma risulterebbe «appiattito», e la nostra coscienza personale e comunitaria ne resterebbe indebolita. Oppure pensiamo a una mamma e a un papà che, in nome di una fede desacralizzata, privassero i loro figli di ogni ritualità religiosa: in realtà finirebbero per lasciare campo libero ai tanti surrogati presenti nella società dei consumi, ad altri riti e altri segni, che più facilmente potrebbero diventare idoli. Dio, nostro Padre, non ha fatto così con l’umanità: ha mandato il suo Figlio nel mondo non per abolire, ma per dare il compimento anche al sacro. Al culmine di questa missione, nell’Ultima Cena, Gesù istituì il Sacramento del suo Corpo e del suo Sangue, il Memoriale del suo Sacrificio pasquale. Così facendo Egli pose se stesso al posto dei sacrifici antichi, ma lo fece all’interno di un rito, che comandò agli Apostoli di perpetuare, quale segno supremo del vero Sacro, che è Lui stesso. Con questa fede, cari fratelli e sorelle, noi celebriamo oggi e ogni giorno il Mistero eucaristico e lo adoriamo quale centro della nostra vita e cuore del mondo. Amen.

    

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