Divina-Misericordia.eu

 

3° incontro: don Alfredo Jacopozzi

Il desiderio di “tornare a casa”.

La Parabola del Figliol prodigo (Lc.15,11-32)

Introduce: Prof. Don Alfredo Jacopozzi, docente di Storia delle Religioni

Incontro a Marciola sabato 14 Marzo 2015

 


NB: Questa trascrizione non è stata rivista dall’autore e risente dello stile parlato. Dovrebbe pervenire un testo sintetico a cura dell'autore che saremo ben lieti di inserire.

Elisabetta, autore della trascrizione, ha voluto scrivere "D-o" come segno di rispetto verso i nostri fratelli maggiori ebrei, che non pronunziano il sacro Nome. Scrivere D-o ci ricorda ciò, perchè frena  la nostra lingua e fa fare una pausa di rispetto, prima di pronunciare il nome di Dio.

 

 

Sabato 14 Marzo 2015 – “Gesù il terapeuta” – Santa Maria a marciola

 

Il desiderio di “tornare a casa”. La Parabola del Figliol prodigo (Lc.15,11-32)

Introduce: Prof. Don Alfredo Jacopozzi. Docente di Storia delle Religioni 

 

Dico a mò di introduzione che “Gesù terapeuta” non vuole prendere il posto della psicologia ma siamo in una terapia spirituale, cioè una comunità che legge, che riflette e che vive queste Parole come parole che entrano dentro (e sarebbe bello leggere la Parola con la freschezza della prima volta perché potesse diventare dirompente nella nostra vita), io credo che la terapia che Gesù propone sia una terapia sulla dimensione della Pasqua, come dire: lo Spirito di Dio è già diffuso dentro l’esperienza umana e quindi anche il testo che ascolteremo che parla di “perdita”, di “smarrimento” così come del resto anche le altre due parabole del capitolo 15: la dracma e la pecora smarrita. Cioè la dimensione della perdita e dello smarrimento, in questa dimensione di terapia spirituale, non è qualcosa di negativo ma è un’esperienza vitale, un’esperienza profonda per cui parlare di perdita è un’esperienza di vita in cui alla luce della Pasqua dovremo vederlo come esperienza di resurrezione. Quindi dobbiamo predisporci a questo tipo di comprensione per avere beneficio da questa lettura.

 

E’ una delle 3 parabole della Misericordia, siamo quasi al centro, nel cuore del vangelo di Luca. Penso che Gesù non volesse che la gente di galilea che lo ascoltavano davvero con l’orecchio aperto, non reputassero D-o come un padre-padrone, un giudice, un signore. Tutte categorie, immagini che fanno parte dell’esperienza antico testamentario. Infondo Gesù ci parla di D-o a partire da sé stesso, dalla propria esperienza e lui lo vive come Padre, come padre incredibilmente buono e quindi ci apre uno squarcio, una prospettiva su come lui percepisce l’esperienza di D-o. E questo D-o è davvero come un padre che non ha per niente a cuore, non ha desiderio della sua eredità. E pensate questo nella cultura ebraica, patriarcale, fortemente dedita a queste relazioni (padre-figlio), già la presentazione di un padre che in fondo non pensa alla propria eredità ma RISPETTA la decisione di questo figlio e non SI OFFENDE quando uno dei suoi figli gli chiede la sua parte di eredità. Io credo che questo sia un po’ il nucleo su cui dobbiamo riflettere: questa messa in crisi di questa immagine di Signore, di questo Signore che ha questa eredità preziosa, sua, e che la spartisce. E questo già mette in discussione una certa immagine di D-o e soprattutto questa percezione del distacco dal figlio che se ne va, e quindi interrompe questo rapporto, e dal punto di vista umano, il padre non sa quello che ha vissuto questo figlio, e quando il figlio torna, questo padre lo abbraccia, lo accoglie, non vuole sapere niente…

Credo che questa sia la struttura di fondo di questo brano: questo padre che è metafora di D-o viene a mettere in crisi una certa percezione di D-o che soprattutto in quella cultura è una parola forte, una esperienza forte, e l’immagine di questo figlio che ritorna e ritorna “distrutto” e viene di nuovo accolto.

Io credo che qui siamo di fronte ad una delle più intense metafore, immagini che ci presentano D-o. Questa parabola che viene chiamata la parabola dl “figliol prodigo” ma che diventa ormai la parabola del “padre buono”. C’è da domandarsi: cosa avranno provato coloro che per la prima volta ascoltavano questa parabola su questa bontà di questo padre, totalmente preoccupato solo della felicità di questo figlio? Io credo che sconcerti un certo clima di un certo contesto, infondo che razza di padre è questo che non impone la sua autorità? come può un padre consentire questa sfacciataggine di un figlio che gli chiede di dividere l’eredità ancora prima della sua morte. E questo vuol dire già molto! Come può dividere una proprietà mettendo poi in pericolo il futuro della sua famiglia.

Io credo che Gesù li sconcerti proprio perché presenta questa inedita immagine di D-o. Quindi credo che gli uditori non potevano crederci, fondamentalmente. Ecco perché entra profondamente dentro un vissuto, perché sono immagini che vengono ad incrinare una mentalità che è quella che anche noi abbiamo ereditato.

Che cosa sta suggerendo Gesù con questa immagine?

E’ possibile davvero che D-o sia così? E’ possibile che sia davvero questo padre che SPERPERA, dilapida la sua eredità, perché la dà, la dà con questa gratuità, infrangendo le regole, soprattutto le regole della correttezza dei rapporti familiari. Perché infondo consegna l’eredità ancora prima di morire e quindi in qualche modo si fa povero. E soprattutto un padre che non è più di tanto preoccupato della moralità del figlio (come invece gli farà notare il figlio maggiore) ma “bisognava far festa”

Io credo che questa immagine così forte venga a scardinare l’immagine sedimentata di D-o che è in noi, e che metta in crisi una certa idea di D-o e soprattutto una certa comprensione religiosa di D-o.

 

Vediamo un po’ la scansione del testo:

dammi la parte del patrimonio che mi spetta” c’è un reclamo. Reclama. Che cosa sta chiedendo questo figlio, in realtà, in una comprensione più ampia? Sta reclamando la morte del padre, vuole considerare morto suo padre, vuole essere libero, vuole rompere i legami e questo non è possibile finchè il padre non “scompare” e quindi il figlio può prenderne le distanze.

E il padre acconsente a questo desiderio, quasi senza fiatare, per cui in questo modo il figlio sceglie liberamente la sua vita. E allora questo ci interroga profondamente anche sulla nostra situazione. Molti oggi vogliono vedersi liberi da D-o, essere felici in uno spazio di libertà, senza la presenza di un “padre eterno” all’orizzonte. In qualche modo questa persistenza di un D-o che deve fuoriuscire dalla società, dalla coscienza e come nella parabola, D-o acconsente, resta in silenzio, acconsente che Lui fuori esca dalla vita di tante persone. Credo che siamo di fronte ad una esperienza spirituale profonda che ci dovrebbe interpellare: il desiderio di libertà che agli occhi di questa immagine di questo padre, è più che lecito, questo distacco sembra lecito affinchè il figlio possa scegliere liberamente la sua vita. Come a dire che D-o non costringe nessuno a credere.

Il figlio “se ne va in un paese lontano”. Ha bisogno di vivere lontano, di staccarsi dalla famiglia, dal padre. Infondo qui l’immagine è quella di un padre che lo guarda andare via ma che non l’abbandona con lo sguardo, sembra quasi seguirlo all’orizzonte, un accompagnamento e lo starà ad aspettare ogni mattina. ogni mattina, all’alba, lo sguardo del padre è su quell’orizzonte. Dio non ci è forse davvero vicino anche mentre sembra perderci di vista o sembra che noi lo perdiamo di vista? Io credo che questo sia un punto focale nel percorso di terapia spirituale, dobbiamo avere questa consapevolezza profonda: NOI POSSIAMO PERDERE D-O MA DIO NON PERDE NOI, non ci perde di vista. Forse è anche legittimo perdere di vista dio in certi snodi della vita, dolorosi, laceranti. Possiamo perdere D-o ma Dio non perde noi. E questo credo ci dia un senso di profonda fiducia per poter camminare in “regio dissimilitudinis” (come dice S.Agostino), in questa “regione lontana”, in questa zona d’ombra della vita, però con questa NOSTALGIA profonda nel cuore. Perché questa nostalgia profonda rimane nel cuore e la parabola questo lo mette ben in evidenza. Qui c’è dramma, ma non c’è la tragedia.

 

Si dice che il figlio si dà ad una “vita dissoluta” il termine greco originale non suggerisce solo il disordine morale, anche questo, ma suggerisce un’esistenza quasi nociva, sconvolta, caotica per cui la sua vita in poco tempo comincia a trasformarsi in autopunizione, in qualcosa di negativo per sé stesso. E poi sopraggiunge questa “grande carestia”: è un’immagine drammatica, pesante perché è costretto a sopravvivere solo pascolando i porci e sapete bene che nella cultura ebraica, i porci sono animali immondi per cui è il segno della perdizione assoluta.

E le parole che questo figlio esprime in questa zona d’ombra della sua esistenza, sono parole pesanti, drammatiche: “io qui muoio di fame”. C’è davvero l’esperienza drammatica del vuoto interiore, di fame d’amore, fame di riconoscimento, fame di qualcosa che già dice la nostalgia, perché capite bene che la fame d’amore, di riconoscimento sono i segni profondi, vitali, della nostra nostalgia di D-o, del nostro sentirsi lontani da casa, perché probabilmente è solo questo di cui tutti abbiamo bisogno: DI ESSERE RICONOSCIUTI E AMATI. E quando viene meno questo, quando davvero muoriamo di fame, di questa fame, lì, percepiamo davvero la nostra lontananza da casa, la nostra distanza abissale. Perché? perché non è facile un cammino vero, autentico di acquisizione della propria libertà. la parola libertà è una parola che si sbandiera molto facilmente, ieri a livello ideologico, oggi a livello libertario, ma in modo molto superficiale. Quando si tratta di metterla davvero in atto questa libertà profonda, quindi quando si tratta davvero di camminare sulle proprie gambe non è così scontato, anche perché tutto il nostro passato, tutto il nostro vissuto, la nostra esperienza non è che è messa da parte o che non ci sia, ma si fa sentire. La nostra esperienza si fa sentire, quando ci troviamo in questi vuoti, ritornano a galla tante cose della nostra vita, ritornano a galla tante percezioni profonde. E difatti torna a galla anche qui: “si ricordò della casa di suo padre” ha una memoria profonda di qualcosa che dice intimità, relazione, comunione… Ma probabilmente con una percezione diversa e per fortuna, diversa! Capite bene che se non si sperimenta questa lontananza probabilmente si rimane a casa (vedi esempio del figlio maggiore) per cui si sta attaccati “alla tetta della mamma” ma senza maturità, senza umanità, invece lui ora sente davvero questa abissale distanza da una casa, da una INTIMITA’ PERCEPITA davvero COME VITA, come ricchezza, come possibilità, quindi la deve riconquistare. E’ questo il percorso. Quindi non è facile il cammino verso una libertà autentica.

Per cui c’è davvero da chiedersi: per sperimentare questa dimensione della memoria della casa che ci rimette in intimità profonda con noi stessi, con la nostra verità più profonda, occorre sentire davvero i morsi di questa fame. Ora forse noi non sperimentiamo queste distanze abissali, non siamo mai davvero andati via di casa, ma la domanda di fondo ce la dobbiamo sempre porre: ma queste relazioni che abbiamo quanto le sentiamo “vere”, autentiche, vitali per noi stessi o ne facciamo qualcosa di assolutamente scontato? per cui ci sono e ce le teniamo e invece non ne abbiamo mai preso quella distanza giusta che ci fa sentire che quelle relazioni sono vere, autentiche, che ci danno Vita, ci danno forza, ci danno capacità di maturazione, di crescita. Questa domanda ce la dobbiamo porre anche se non andiamo nella zona d’ombra più lontana.. dove forse qualcuno ci è andato nella sua vita. Apro una parentesi: in questo io sono molto alla maniera di Bonhoeffer che vuole “annunciare Cristo al cuore del villaggio”. E’ facile annunciare Cristo nella dimensione dello scacco, del fallimento, però voglio pensare a quelle persone che non hanno mai fatto queste rotture, queste separazioni e che quindi rimangono in un certo clima di casa, ma devono percepire che la casa o è abitata da rapporti autentici e quindi da relazioni vere o altrimenti le relazioni scontata, anche no! Quindi cerchiamo di non vedere soltanto le lacerazioni, ma anche quelle incrinature necessarie, e a quanto possono essere utili per ricostruire, per rimettere in relazione.

 

Ecco che alla luce di questo, il giovane “ritorna in sé” espressione splendida! Agostino ha delle pagine incredibili su questo “ritornare in sé”, in questa dimensione profonda scavando in questo vuoto, in questa lontananza, in questa ombra, in questa lacerazione, e “ricorda”. Qui c’è la MEMORIA, ricorda il volto del Padre, ricorda il clima di casa, il pane, la familiarità e difatti associa il volto del Padre all’abbondanza di pane “in casa di mio padre, hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame”. Quindi dentro di lui nasce il desiderio di una libertà nuova, che è una libertà nuova riguadagnata nei rapporti, riguadagnata in quel rapporto fondamentale che lo tiene in vita, non una libertà così e quindi riconosce il bisogno di ritornare, il bisogno di ritornare in maniera diversa: “mi alzerò e andrò da mio padre”. E io credo che dobbiamo interrogarci su questa immagine. Quanto ci mettiamo in cammino, nella nostra esperienza di vita e di fede, riconoscendo davvero il volto di quel D-o così come ci viene presentato da Gesù?

Io credo che molti lo farebbero se conoscessero questo D-o che secondo la parabola di Gesù, E’ LI’, è lì in attesa, “corre incontro al figlio, gli si getta al figlio, lo bacia”. Questo abbraccio, questo bacio parlano di un amore, di una relazione, di qualcosa che dice Vita, diciamocelo tranquillamente: qualcosa che dentro tanta esperienza di chiesa è solo parlata ma che non si esprime, che non si coglie, ma si coglie formalità, freddezza e non questo abbraccio paterno, o per par-condicio, io parlerei anche di un grembo materno, perché D-o lo possiamo vedere anche nella dimensione di un grembo materno che ci genera e ci fa davvero percepire quanto è importante crescere come figli, non come “bamboccioni” ma come figli. Io credo che questo abbraccio, questo bacio dicono l’amore, dicono la dimensione dell’amore.

E con questa immagine di questo padre che fa fare questa esperienza, che dà questo abbraccio, credo che siamo di fronte al riconoscimento di una libertà acquisita, non è l’abbraccio di chi quando ritorni a casa, punta il ditino e ti dice “te l’avevo detto, io” non è il dio moralistico. No qui c’è un abbraccio vero, del riconoscimento che quel percorso di libertà fatto, E’ DEGNO, è degno. Tu sei mio figlio anche se sei stato nell’ombra più totale.

Questo ritorno è un ritorno di un figlio che aveva rotto questa relazione, aveva dato per morto questo padre, potremmo dire che di per sé è un atteggiamento quasi “imperdonabile” perché aveva chiesto la sua parte di eredità, e quindi aveva, in qualche modo, dichiarato morto il padre, aveva rotto la solidarietà del focolare, del clima familiare, aveva mandato in malora la dignità della famiglia. Quindi dietro questo c’è il perbenismo di una certa mentalità che vedendo questo abbraccio, suscita questa domanda: che razza di padre è questo?

Allora quando questo figlio distrutto, ritorna, questo padre è sorprendente, perché è preso dalla COMPASSIONE. “quando il padre lo vide, commosso, gli corse incontro” qui c’è proprio la compassione di D-o. La compassione di Dio, come dice Agostino, è davvero la miseri-cordia di D-o: “miseris cordare” secondo Agostino è “il cuore di D-o che si dà” che si dà all’uomo, ad una umanità affaticata, stanca. Qui c’è davvero l’immagine della compassione: gli corre incontro, lo bacia e dimentica totalmente la propria dignità, la propria autorevolezza e autorità di padre, gli offre totalmente questa gratuità del perdono, prima ancora che si dichiari colpevole: “padre ho peccato contro” quasi non gli importa, non gli interessa, lo interrompe: “presto, portate” è bellissimo! C’è subito questo cambiamento di prospettiva, per cui c’è questo pieno re-inserimento, quasi come se niente fosse accaduto, o se accaduto, viene pienamente ricoperto di nuova dignità: infatti le vesti, l’anello sono immagini simboliche per dire la dignità regale, il figlio che è tornato ed è tornato a casa. Quindi è importante far festa. In ogni caso va fatta festa. Questa è l’immagine più bella, di una misericordia e di un perdono che non ha niente di religioso nel senso moralistico come noi lo pensiamo, ma proprio questa presa di consapevolezza di una maturità, di una esperienza di crescita che adesso è davvero riconosciuta. Adesso hai davvero la dignità di un Figlio, di una persona che può essere pienamente se stessa, anzi di più, sei quasi legale.

 

E poi incontriamo l’immagine dell’altro figlio. Sembra quasi una appendice invece è una parte importante.

E cominciarono a far festa” come se la storia finisse qui, come se tutto si concludesse in questo clima di festa. Infatti il testo riprende “il figlio maggiore si trovava nei campi” come a dire una ripresa su un altro livello. Questa immagine del figlio maggiore, probabilmente un uomo, rispetto al figlio minore che ha immediatamente le caratteristiche del ragazzo, della persona che ha ancora da fare il cammino, il figlio maggiore viene già configurato come uomo adulto, che è sempre stato a casa, vicino a suo padre, che non ha minimamente pensato mai di andare via, di fuggire, di chiedere l’eredità e quindi quando lo informano della festa organizzata per accogliere questo figlio perduto, “si arrabbiò”, si arrabbiò. Questo figlio apparentemente maturo, dignitoso, è  un “personaggio“. Alla fine questo personaggio si incrina, perchè un personaggio, forse è solo una grande maschera, una grande maschera che si incrina e si arrabbia. Comincia a fare le bizze, non vuole entrare. Non è mai andato via dalla casa ma ora si sente totalmente estraneo ad un clima di festa, probabilmente l’immagine di questo fratello maggiore ha un colore “grigio” di un contesto grigio, scontato, scontato come sono spesso scontate, le nostre relazioni più vicine. Un clima grigio. Ora invece che questo figlio ha portato, anche con drammaticità, colore nella vita: sangue, sofferenza, questo fratello che ha vissuto nel grigiore non si riconosce più in questo clima colorato. Allora ecco che il padre esce ad invitarlo con lo stesso affetto con cui è andato incontro all’altro. Sembra un padre che non fa differenza nel suo comportamento: esce a supplicarlo, perché ENTRI a far fasta, entri in questo spazio colorato, lui che è sempre vissuto nel grigiore dei rapporti, che entri in questa dimensione di festa.

E qui scatena tutta la sua rabbia, esplode mostrando tutto il suo risentimento, vomita tutta la sua acredine: “io sono sempre stato con te e tu non mi hai mai dato..” notato che ci sono tutte le dinamiche psicologiche tipiche del risentimento, di chi ha covato dentro, di chi non si è mai messo in discussione ma nel momento in cui il suo personaggio va in crisi e si incrina la sua maschera, esplode e mette in discussione tutto quello che non aveva mai messo in discussione, diventa improvvisamente focoso.

Ha passato tutta la sua vita ad obbedire agli ordini del padre ma non ha imparato mai ad amare, fondamentalmente. Non ha mai imparato ad entrare in una relazione vitale, dinamica, si è sempre per così dire costruito un personaggio, si è riparato dentro una certa immagine, per cui sa solo rivendicare i propri diritti e denigra totalmente il fratello: “ora che questo tuo figlio” (ma è anche tuo fratello!) “ha sperperato tutto con le prostitute” il testo non dice niente, dice solo una vita dissoluta, ma il fratello maggiore nel suo risentimento e nel togliersi questa maschera deve proiettare sul fratello tutto il suo vissuto non vissuto, tutti i suoi desideri e le sue aspirazioni, desideri erotici, che ha sempre tenuto dentro, nascondendoli, e che ora esplodono. E’ chiaro che nel fratello minore proietta tutte le sue ansie e le sue angosce.

E questa credo che sia davvero la “tragedia”, nella prima parte non c’è la tragedia, qui c’è la tragedia invece. La tragedia del figlio maggiore perché questo non è mai andato via di casa MA IL SUO CUORE è STATO SEMPRE LONTONO. E’ questo il paradosso. Non è mai andato via di casa ma non è mai stato in casa, è sempre stato un cuore lontano, freddo, distaccato, formale… sa compiere i comandamenti, sa mettere in atto i comandamenti ma non sa amare, non sa amare! Non comprende l’amore del padre per lui e per il fratello minore e soprattutto per il fratello che ha fatto un cammino autentico, quindi lui non ha colto “un perdono”, non vuole sapere nulla del fratello.

 

Ed è bello perché Gesù qui non conclude questa parabola. Questa parabola non ha conclusione. Gesù non soddisfa la nostra curiosità: alla fine il figlio maggiore entra in casa o rimane fuori? Non lo sappiamo.

 

Capite bene la potenza spirituale, terapeutica (nel senso che dicevo all’inizio) di questa parabola. Io credo che oggi siamo immersi in una profonda crisi in cui in fondo “lo smarrimento” di cui parlano queste parabole, (tutte e tre le parabole: lo smarrimento della dracma, della pecora, del figlio), questo smarrimento diventa quasi una “cifra“ esistenziale: ci si smarrisce ogni tanto e forse è bene, ogni tanto, smarrirsi. Pensiamo un po’ ai nostri smarrimenti.

 

Anche nella società in cui viviamo noi siamo abituati un po’ troppo a parlare da credenti o da non credenti, a parlare sulla vita delle persone in situazioni difficili, drammatiche, pesanti e noi continuiamo a classificarle: divorziati, omosessuali. Mentre noi categorizziamo, formalizziamo con le nostre categorie i figli e le figlie di D-o , D-o continua ad aspettare tutti quanti noi, e soprattutto continua ad aspettare che ci sia una conversione autentica del figlio maggiore. Credo che questo sia un po’ la non risoluzione di questa parabola. Soprattutto D-o continua ad aspettare che tutti noi non apparteniamo solo ai buoni praticanti e alle buone pratiche religiose perché D-o davvero è padre di tutti. D-o è padre di tutti e quindi credo che il figlio maggiore interpella noi che crediamo e che gridiamo di vivergli vicino a questo D-o, e allora c’è da chiedersi che cosa stiamo facendo noi che non abbiamo mai abbandonato la casa del padre, nei confronti di chi per tanti motivi, viene messo in questa condizione o fa questa scelta? Assicuriamo la nostra presenza, la nostra vicinanza, la nostra sensibilità e direi anche la nostra capacità di compassione, di misericordia? O invece ci chiudiamo ancora di più nel personaggio, nella struttura religiosa? Stiamo davvero costruendo comunità aperte che sappiano quanto meno accogliere, comprendere, accompagnare quelli che per un motivo o un altro, in situazioni di crisi, di sofferenza, di lacerazione, di ricerca, hanno abbandonato “casa”? E che cercano in qualche modo D-o tra dubbi e incertezze?

Perché infondo di D-o rimane davvero una nostalgia profonda, ma non una nostalgia in senso sentimentale ma rimane il bisogno di una autenticità, di una trasparenza nei confronti della vita, dei rapporti con gli altri, quindi davvero c’è da chiedersi se gettiamo ponti (come fa il padre) o se non siamo ancora muri e barriere. Offriamo amicizia o guardiamo ancora con diffidenza questi percorsi, questi cammini? Io credo che su questo dobbiamo davvero interrogarci anche alla luce del percorso che stiamo facendo in questa piccola realtà: la parola del vangelo è davvero terapia dell’anima? terapia profonda che ci mette in questa dimensione di accoglienza della nostra vita, dei nostri bisogni più profondi? Sentiamo davvero questi percorsi come qualcosa che può essere condiviso e proposto oggi a tante persone che sono in ricerca?

 

(55’ Domande)

 

 

https://www.divina-misericordia.eu/il-figliol-prodigo